Rahul Gandhi: «Nonna Indira mi disse: mi uccideranno. Giocavo con i suoi assassini. Tifo Juve e adoro Mina»
Sul Corriere della Sera di mercoledì 1° febbraio
Aldo Cazzullo, inviato a Srinagar (Kashmir), intervista
Raul Gandhi. È partito dall’Oceano Indiano a inizio settembre ed è arrivato qui tra le nevi del Kashmir a fine gennaio: 3.500 chilometri a piedi. L’ha chiamata Bharat Jodo Yatra: la marcia per unire l’India. Di notte ha dormito in un container, come le 120 persone che hanno sempre camminato al suo fianco, tra cui il portabandiera scalzo. Di giorno ha attraversato villaggi, piantagioni, foreste, accompagnato da stelle di Bollywood e contadine analfabete, artisti e popolazioni tribali. Nella valle di Srinagar il primo giorno la polizia non l’ha protetto, ci sono state cariche di sostenitori e curiosi che volevano vederlo, toccarlo: nulla di drammatico, ma è stato l’unico luogo in cui si è creata una situazione di reale pericolo. Suo bisnonno fondò l’India moderna. Sua nonna era la leggendaria Indira Gandhi, assassinata dalle guardie del corpo sikh. Suo padre era il primo ministro Rajiv Gandhi, ucciso dalle Tigri Tamil. Sua madre è Sonia, cresciuta a Orbassano, diventata leader del Partito del Congresso, che dopo aver governato per mezzo secolo ha ceduto il passo, anche sotto il peso degli scandali, ai nazionalisti hindu di Narendra Modi. Ora, con questa lunga marcia, Rahul Gandhi si riprende il ruolo naturale di capo dell’opposizione, a un anno dal voto. Le sue interviste ai giornali stranieri sono rarissime, a maggior ragione se italiani. L’unico modo è reggerne il passo da podista, per ascoltare una storia straordinaria, mai raccontata nei dettagli. Mister Gandhi, perché la marcia? «Per ascoltare e capire i miei compatrioti, e per ascoltare e capire me stesso. Nel profondo. Tutti dicono che siamo un Paese pieno di odio: una persona contro l’altra, una religione contro l’altra, una provincia contro l’altra. Volevo scoprire se è vero». È vero? «No. Tantissima gente non odia nessuno, anzi si vuole bene, si aiuta, si prende cura degli altri». E la polarizzazione tra hindu e musulmani, che spesso degenera in scontri? «La polarizzazione esiste. Anche l’odio. Ma non come li raccontano i media e il governo che controlla i media, per distrarci dalle vere questioni: la povertà, l’analfabetismo, l’inflazione, la crisi post-covid dei piccoli imprenditori indebitati e dei contadini senza terra». E cos’ha capito degli indiani e di se stesso, alla fine della marcia? «Che i limiti di ognuno, me compreso, sono molto oltre quel che pensiamo. In sanscrito, la lingua più antica al mondo, esiste una parola, Tapasya, difficile da comprendere per una mente occidentale. Qualcuno la traduce con «sacrificio», «pazienza», ma il significato è un altro: generare calore. La marcia è un’azione che genera calore, ti fa guardare dentro te stesso, ti fa capire la straordinaria resilienza degli indiani. Un popolo fantastico, incredibile, capace tanto di sopportare quanto di amare». Quale incontro l’ha colpita di più? «Molti. Alcuni divertenti, altri scioccanti. Nel Madhya Pradesh ho incontrato cinque bambini, il più grande aveva 12 anni, talmente conquistati dallo yatra che sono scappati di casa per unirsi a noi: me li sono ritrovati davanti in Punjab, abbiamo dovuto chiamare i genitori affinché se li riprendessero. Adesso sono di nuovo qui in Kashmir». E l’incontro più scioccante? «Verso l’inizio, in Kerala. Temevo di non farcela perché mi era tornato il dolore al ginocchio destro, operato anni fa dopo che mi ero lacerato il menisco giocando a pallone. Una bambina si avvicinò e mi porse una lettera, dicendo: leggila dopo. C’era scritto: “So che soffri per migliaia di persone come me. Ce la farai. Non posso marciare con te, ma mi sentirai al tuo fianco. Sarò la tua ispirazione” (Rahul si commuove). Il dolore mi è passato. Lo yatra, la marcia, ha questo di speciale: non è solo una somma di persone. È viva. Ti parla». Che cosa intende? «Le racconto un’altra storia. C’è un ragazzo che vuole rompere il cordone della polizia. La polizia lo ferma. Lui riappare dall’altra parte. Chiedo di lasciarlo passare. Mi si avvicina, mi punta il dito, e dice: “So cosa sei venuto a fare qui. Altri hanno aperto un supermercato dell’odio. E tu vuoi aprire un negozio d’amore».
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