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Le accuse di “colonialismo” a Israele

Le manifestazioni pro Palestina nelle piazze occidentali

Riccardo Perissich 20/11/2023

Le accuse di “colonialismo” a Israele Le accuse di “colonialismo” a Israele Nelle manifestazioni contro Israele e a in favore della Palestina nelle città occidentali, colpisce l’uso costante del termine “colonialismo”. Ormai da qualche tempo il dialogo, o piuttosto la sua assenza, fra l’occidente e il cosiddetto “sud del mondo” è quasi esclusivamente dominato dal riferimento al passato coloniale e alla sua più tragica componente, lo schiavismo. È però lecito domandarci: perché Israele. La colonizzazione è da sempre l’azione con cui un popolo occupa con la forza una terra straniera per viverci o sfruttarne le risorse. Cosa c’entra con Israele? Nessuna persona sana di mente potrebbe negare l’antico legame storico fra il popolo ebraico e la Palestina. Del resto, anche se è enormemente aumentata con il movimento sionista negli ultimi decenni, la presenza ebraica in Palestina non è mai cessata nonostante la feroce repressione romana della rivolta del primo secolo. Allo Stato d’Israele si possono, spesso con ragione, imputare molte colpe ma non quella di aver “colonizzato” la Palestina come gli europei l’Africa; parliamo di uno Stato creato nel 1948 da una legittima risoluzione dell’ONU. È vero che gli insediamenti ebraici abusivi nei territori occupati dopo la guerra del 1967 sono spesso definiti “colonie”; ma si tratta di una manipolazione linguistica. La ragione è più profonda. Sulle ali del citato dibattito fra occidente e “sud del mondo”, nonché dei problemi di integrazioni delle minoranze non europee nei nostri paesi, una larga parte del dibattito politico è ormai declinato quasi esclusivamente in termini di “decolonizzazione”. Non deve del resto sorprendere che potenze come Russia e Cina, la cui ostilità all’occidente ha tutt’altre ragioni e tutt’altri scopi, potenze che peraltro non esitano a praticare il colonialismo quando lo ritengono opportuno, cavalchino l’onda di questo sentimento anti-occidentale. Il perverso passo successivo è che gli ebrei sono in fondo solo dei bianchi colpevoli degli stessi crimini. Persino la Shoah è a volte oscenamente derubricata a “conflitto fra bianchi”.
 
Fin qui potremmo pensare che il fenomeno, eccessivamente semplicistico e improduttivo finché si vuole, riflette un comprensibile sentimento di popoli che hanno legittime rivendicazioni e comprensibili rancori. Si tratterebbe di reagire con risposte e politiche razionali, comprese quelle necessarie a risolvere la questione palestinese. Il paradosso è che questa visione del mondo è anch’essa un prodotto “occidentale”, a cominciare delle università americane, poi britanniche e francesi ma anche di altri paesi. È successo che una parte crescente del pensiero “progressista” occidentale che dai tempi dell’illuminismo era fondato sull’universalismo kantiano e sulla ricerca di uguaglianza, ha cambiato radicalmente registro. Il fenomeno è stato brillantemente descritto da Yascha Mounknel suo ultimo libro “The identity trap”. La soluzione di ogni problema di minoranza a qualsiasi titolo oppressa, ovviamente quelle ex coloniali ma anche culturali, LGTB, persino la questione femminile, è ormai predicata in termini di separazione, di arroccamento sulla propria identità. L’universalismo non diventa altro che una sapiente manipolazione degli oppressori, cioè i bianchi a cui è facile assimilare gli ebrei. L’occidente non è respinto per ciò che fa, ma per ciò che è, compresa la cultura, il capitalismo, la democrazia e persino a volte la scienza; tutto e “coloniale”. Assistiamo a grotteschi paradossi per cui persino nel mondo dello spettacolo i personaggi dovrebbero essere intrepretati solo da attori della stessa etnia, cultura o religione. È facile vedere cosa questa frattura possa significare per la tradizionale sinistra occidentale, che aveva fatto dell’uguaglianza la sua stella polare. Essa sembra paralizzata e vittima del noto riflesso per cui “non bisogna avere nemici a sinistra”, perché in fondo si tratta solo di “compagni che sbagliano”. Nel frattempo, a destra ci sono molti che di identità se ne intendono perché l’universalismo non è mai stato il loro piatto preferito. Si sviluppa così un altro e simmetrico movimento identitario, quello dei bianchi oppressi dal capitalismo cosmopolita (inevitabilmente anche ebraico) e minacciati di invasione dai nuovi barbari; invasione etnica, ma anche culturale, che sovverte i valori cristiani. In questo modo fra l’altro, il tradizionale antisemitismo antigiudaico si mescola con quello nuovo antisionista. Con la preoccupante prospettiva che alla destra piace vincere, quando alla sinistra basta testimoniare.
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