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La morsa doppia
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Redazione InPiù 02/07/2025

Il Donald Trump che vediamo questa settimana – commenta Danilo Taino sul Corriere della Sera – non è il Donald Trump di due settimane fa. L’attacco americano ai siti nucleari iraniani racconta che il presidente non è solo bluff, grandi parole seguite da passi indietro. Che piaccia o meno, ha preso una decisione che molti suoi predecessori avevano evocato ma poi lasciato cadere. Stesso discorso vale per l’impegno preso dai Paesi europei a contribuire molto di più al funzionamento della Nato: altri presidenti americani lo chiedevano, con la sua brutalità Trump lo ha imposto. Due eventi che cambiano la percezione dell’inquilino della Casa Bianca e dell’America di oggi (ieri è anche riuscito a fare passare al Senato americano il suo programma di bilancio, il Big Beautiful Bill, soltanto grazie al voto decisivo del suo vicepresidente JD Vance). Come evolverà il ridisegno della mappa politica e militare del Medio Oriente è tutto da scoprire. Ci saranno le reazioni di Teheran. Il primo risultato che il bombardamento dei B-2 ha prodotto, oltre ai danni alla produzione atomica iraniana, è però il ripristino della deterrenza americana nella regione e, in proiezione, nel mondo. Era stata danneggiata dal ritiro disastroso dall’Afghanistan nell’agosto 2021, disimpegno che probabilmente ruppe gli indugi di Putin sull’invasione dell’Ucraina sei mesi dopo. E come prenderà forma l’impegno dei Paesi Ue a dotarsi di una Difesa consistente è questione aperta: di certo le cancellerie ora sanno che la sicurezza dipende soprattutto da loro. È che, nelle sue decisioni spesso sconcertanti, Trump non è solo Trump, è anche il presidente degli Stati Uniti, della superpotenza che quando si muove provoca conseguenze: positive o negative ma le provoca. Non è bello constatare l’impossibilità di risolvere situazioni di grave crisi con la diplomazia. Come non è bello sapere che per garantire la propria sicurezza occorre spendere il 5% del Pil. I tempi nuovi sono però questi, forgiati da potenze aggressive. La novità delle scorse due settimane è che gli Stati Uniti non si sono ritirati dal mondo, come era invece sembrato.
Guido Tabellini, la Repubblica
Il presidente Trump – sottolinea su Repubblica Guido Tabellini – sta vincendo alcune battaglie importanti nella sua guerra economica contro il resto del mondo: la Nato ha accolto la sua richiesta di alzare la spesa per la difesa al 3,5 per cento del Pil (più 1,5 per cento in infrastrutture) entro il 2035, più di quanto spendano oggi gli Stati Uniti, dove la spesa in difesa secondo le stime scenderà al 2,4 per cento entro il 2035; il G7 ha esentato gli Usa dall’imposta minima globale del 15 per cento sui profitti delle multinazionali; per evitare ritorsioni commerciali, il Canada ha rinunciato all’imposta del 3 per cento sulle vendite dei servizi digitali effettuate sul suo territorio. Non è escluso che anche molti paesi europei, tra cui l’Italia, siano costretti a fare altrettanto. Nel frattempo, la borsa americana ha superato i massimi storici. Nonostante l’enorme incertezza creata da Trump, l’economia sta tenendo e una recessione nella seconda metà dell’anno è diventata meno probabile. L’inflazione non è ancora salita, nonostante i dazi già imposti, e il dollaro si è deprezzato di oltre il 10 per cento (e probabilmente si svaluterà ancora, anche questo un obiettivo dell’amministrazione americana. Non è affatto detto che quanto sta avvenendo sia davvero nell’interesse degli Stati Uniti, ed è ancora presto per giudicarne l’impatto economico. Né è vero che l’economia internazionale sia un gioco a somma zero, dove conta solo chi guadagna e chi perde. Tuttavia, Trump sta raggiungendo molti dei suoi obiettivi economici, grazie non alla sua abilità negoziale, ma a due altri fattori. Primo, i suoi alleati occidentali non possono rischiare di perdere improvvisamente il sostegno militare americano. Secondo, l’economia americana è davvero molto più forte e resiliente delle altre. Le lezioni per l’Europa e per l’Italia sono chiare. Da un lato, dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dagli Stati Uniti. Dall’altro, dobbiamo imparare dagli americani come rendere più dinamica la nostra economia. La lezione chiave è che per innovare occorre rischiare.
Nicoletta Verna, La Stampa
La notizia che in Amazon il numero dei robot sta per eguagliare quello degli esseri umani – commenta Nicoletta Verna sulla Stampa – si inserisce in una riflessione più ampia che riguarda il cambio di rotta assunto dal senso, dal valore (anche simbolico e identitario), dal peso del lavoro oggi. È abbastanza certo che l’impiego massivo di macchine porterà nei prossimi anni a una diminuzione del lavoro umano. I dati non sono univoci, ma ad esempio un rapporto del McKinsey Global Institute sull’economia statunitense del 2023 afferma che en- tro il 2030 fino al 30% delle ore attualmente lavorate saranno automatizzate, e qualche mese fa Bill Gates si è chiesto persino se nel giro di 10 anni non si possa arrivare a lavorare due giorni la settimana. Le conseguenze saranno complesse: molti posti di lavoro si perderanno, altri verranno sostituiti, altri ancora subiranno sostanziali modifiche. In tutti i casi, le previsioni ci dicono che la mole di lavoro per gli esseri umani è destinata a calare, almeno nelle società capitalistiche occidentali. Questo è un cambio di rotta abbastanza deciso: per la prima volta il progresso non tende all’aumento, alla crescita dei posti di lavoro, bensì alla diminuzione. E porta a ridefinire molti dei nostri principi e valori. È un ribaltamento antropologico ancor prima che tecnologico, sociale ed economico. Allora: cosa faranno le persone che non lavoreranno più, o che lavoreranno meno? E, problema enorme: come verranno ridefinite la ricchezza, e la stessa sussistenza, se l’intelligenza artificiale sostituirà solo alcuni lavori e ne abolirà altri? Su quali valori alternativi questi individui baseranno la propria identità, i propri obiettivi? Sono domande che già molti giovani si pongono: la richiesta crescente di smart working, il rifiuto del mito del sacrificio totale per l’azienda (che invece ha caratterizzato le generazioni precedenti), la locuzione tutta contemporanea “conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi di vita” (come se il lavoro non facesse parte della vita) ci fanno capire che le nuove generazioni hanno già preso carico questo cambiamento, e lo stanno portando avanti. Ridimensionando il ruolo del lavoro nella costruzione dell’identità, considerandolo sempre meno come status simbolico o motivo di orgoglio e riconoscimento sociale.
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