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Talenti italiani, se emigra troppa ricerca

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 01/07/2025

Talenti italiani, se emigra troppa ricerca Talenti italiani, se emigra troppa ricerca Francesco Giavazzi, Corriere della Sera
La scorsa settimana – ricorda Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera – l’Erc (European Research Council, l’entità dell’Unione europea che finanzia la ricerca di base) ha annunciato i progetti che hanno vinto i fondi 2025 (721 milioni di euro) riservati a ricercatori senior, quelli che al momento della domanda già vantavano risultati di ricerca significativi. Ciascuno dei 281 progetti selezionati riceverà fino a 2,5 milioni di euro per 5 anni. Quale impatto questo possa avere sulla ricerca di base europea dipende ovviamente dalla disciplina, ma 2,5 milioni di euro sono una cifra comunque significativa. Proprio nel momento in cui Trump taglia in modo drastico i finanziamenti federali alla ricerca, l’Europa compie un salto di qualità. Ma non ci sono solo buone notizie. Il vincitore di un finanziamento Erc non è obbligato a rimanere nel suo Paese: può chiedere di spostare il finanziamento ricevuto altrove, in un Paese europeo che ritenga più adatto a svolgere la sua ricerca. Le scelte dei vincitori su dove spostarsi sono un buon indicatore dell’attrattività di un Paese, almeno per questo tipo di ricerca. Nella «riallocazione» la Germania ha perso 10 ricercatori: erano stati selezionati 45 ricercatori tedeschi (cioè che lavorano in università tedesche), ma di questi solo 35 hanno scelto di mantenere il loro finanziamento in Germania: 10 hanno deciso di lasciare l’università tedesca in cui lavoravano e trasferirsi altrove. Lo stesso è accaduto a 12 vincitori italiani su 37: anche questi hanno deciso di utilizzare il finanziamento altrove. La «fuga dei cervelli» continua ad essere un problema, almeno in alcuni Paesi europei fra cui l’Italia. Una buona notizia per l’Italia proviene dai settori in cui fanno ricerca i 25 vincitori che hanno fatto domanda da università italiane: 12 in matematica, fisica ingegneria, 9 in scienze della vita e due in economia e scienze sociali, più due ricercatori non italiani che hanno deciso di trasferirsi nel nostro Paese. Cifre che confermano che i settori in cui l’Italia eccelle sono quelli cosiddetti Stem (discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche). La conclusione è che in Italia non mancano brave ricercatrici e bravi ricercatori, soprattutto nelle discipline più importanti per la ricerca di base. Le nostre università li sanno evidentemente formare, ma il paese non è sufficientemente attrattivo per i migliori, che troppo spesso decidono di emigrare.
 
Michele Ainis, la Repubblica
Su Repubblica Michele Ainis si occupa della riforma della giustizia, approvata dalla Camera il 16 gennaio scorso in prima lettura. Oggi in Senato – scrive – andrà in scena il rush finale, dopo aver sterilizzato i 1300 emendamenti scritti dalle minoranze attraverso la tecnica del «canguro», altra creatura fantasmatica. Servirà poi la seconda lettura di ambedue le Camere, ma anche questo è un esito scontato. Da qui la nuova pelle del testo costituzionale, con 7 articoli che cambiano registro. Ma da qui, anche e soprattutto, un bel trappolone per gli avversari dell’esecutivo. Perché questi ultimi, ostacolando la riforma, si trovano a vestire l’abito dei conservatori, sono costretti — loro malgrado — a difendere il sistema giudiziario così come funziona adesso, o meglio non funziona. Perché il restyling della giustizia distoglie l’attenzione dal naufragio sul quale è incappato il premierato, trasformando l’insuccesso in un successo. E perché, alla fine della giostra, ci attende un referendum. Lo vincerà il governo, un risultato diverso sarebbe una sorpresa. Intanto, nel referendum costituzionale non c’è il quorum, sicché l’opposizione non può restituire la pariglia rispetto ai referendum sulla cittadinanza e sul lavoro dei primi di giugno, cavalcando l’astensione. E in secondo luogo l’oggetto di quel referendum non saranno i poteri del Premier, non sarà il faccione di Giorgia Meloni, che oggi piace e magari domani non piace. No, sarà il consenso verso il potere giudiziario, che da tempo vola rasoterra: ne ha fiducia soltanto il 39% degli italiani, attesta un sondaggio Tecnè diffuso a febbraio. E il 68% degli intervistati voterebbe a favore di questa riforma, dichiara il medesimo sondaggio. Conclusione: il governo Meloni s’accinge a incassare il suo bottino. Regolando i conti con la magistratura, e mettendo all’angolo il Pd, insieme ai suoi alleati. Ma in questo scenario c’è una responsabilità delle stesse opposizioni. Avrebbero dovuto scegliere una strategia diversa dal muro contro muro.
 
Stefano Lepri, La Stampa
È certo una buona notizia che il potere di acquisto delle famiglie italiane sia cresciuto dello 0,9% nel primo trimestre del 2025, commenta sulla Stampa Stefano Lepri. Ma ci vorrebbe ben di più per correggere l’impressione di impoverimento che, come dal sondaggio di cui questo giornale ha parlato ieri l’altro, è diffusa. Siamo un Paese il cui tenore di vita, all’incirca stazionario dall’inizio del secolo, era nettamente diminuito nel 2022 e 2023, secondo i dati che lo stesso Istat ha diffuso la settimana scorsa. In parallelo, la pressione fiscale è salita di mezzo punto. I dati trimestrali sul gettito tributario non sono molto significativi; ma ce n’è abbastanza per concludere che la promessa di «meno tasse» con cui la destra era andata al governo non è stata realizzata. Anche qui, la nuova maggioranza che ambiva a cambiare tutto, nell’economia ha cambiato poco o nulla. Né sembra che ci siano idee chiare su che cosa faremo dopo che il sostegno dei fondi europei del Pnrr si sarà esaurito. Al momento, le nostre imprese hanno i conti in ordine, pur se in capo a due anni di successivi lievi arretramenti; il lavoro continua a non mancare. Ma del modesto 0,6% di crescita del prodotto in vista per quest’anno oltre la metà viene dagli investimenti del Pnrr. Sempre dal Pnrr verrà un contributo consistente anche nel 2026; poi potrà esserci un contraccolpo. Uno studio recentissimo della banca multinazionale Barclays ipotizza che in un quadro europeo già deludente la crescita media dell’economia italiana possa del tutto arrestarsi nell’arco di un decennio. Guardare nel futuro è particolarmente difficile oggi, quando con alterni capricci il presidente degli Stati Uniti tenta di scaricare sui Paesi alleati il peso di misure che secondo lui verrebbero incontro al malcontento dell’elettorato americano. Anche se il dazio Usa si fermerà al 10%, il nostro export sarà danneggiato. Solo fattore positivo per l’Italia potrà essere che la Germania spenderà di più, speriamo con incisività.
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