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La voglia di disfare l'Europa

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 30/06/2025

La voglia di disfare l'Europa La voglia di disfare l'Europa Carlo Verdelli, Corriere della Sera
Un risultato certo Donald Trump l’ha ottenuto, sottolinea sul Corriere della Sera Carlo Verdelli. E non è, come aveva baldanzosamente promesso, quello di far finire in un paio di giorni le due più importanti guerre in corso. No, il secondo Trump non passerà alla Storia come un risolutore di conflitti ma può già con legittimità intestarsi un altro tipo di svolta, dagli esiti al momento imprevedibili: la frantumazione dell’Europa, il vecchio continente delle democrazie, e la sua conseguente perdita di centralità in qualsiasi scelta internazionale. Come un conquistatore che intuisce le debolezze di un’Unione tenuta insieme soltanto da una moneta e da valori sempre meno condivisi, il padrone della Casa Bianca, perché è da padrone che si atteggia e si comporta, Donald Trump ha cominciato a fiaccare la Ue con una raffica di colpi che hanno lasciato segni evidenti e a cui non è stata data alcun tipo di risposta che segnasse un confine non valicabile. Elencando su questo giornale alcune delle vittorie già ottenute nei nostri confronti, dall’ostacolare le misure di Bruxelles contro gli abusi dei colossi della Silicon Valley al sabotaggio della Global Minimum Tax (G20, 2021) per frenare l’elusione fiscale delle multinazionali, Federico Fubini ha centrato il punto: non trovando reazioni significative alle sue incursioni, Trump avanza e con ogni probabilità raddoppierà, triplicherà. La strategia di pacificarlo assecondandolo non sta funzionando. Se non si avverte la portata dell’allarme, se si continua a procedere in ordine sparso di fronte a un’offensiva che mira a disunire l’Unione, l’Europa si condannerà a tornare ad essere un’espressione geografica. Il rischio della sottomissione è già dentro i nostri confini, a divorare veloce un’eredità e una grandezza economica e anche politica che meriterebbero altra dignità di tutela, molto di più del 5 per cento che ci viene richiesto per difenderci dall’arrivo dei tartari.
 
Paolo Gentiloni, la Repubblica
Su Repubblica Paolo Gentiloni torna sul vertice Nato all’Aia. E afferma che se l’obiettivo era tenere a bordo Trump, allora si può dire che, tra silenzi e vertiginose cadute di stile, il summit Nato della scorsa settimana questo obiettivo lo ha raggiunto. Ma il fatto più importante, per certi versi storico, è che il vertice dell’Aia ha chiuso la porta all’adesione dell’Ucraina alla Nato. Sempre per tenere a bordo Trump. Chi pensava che questo avrebbe indotto Putin a concessioni è stato subito smentito da ondate di bombardamenti russi, particolarmente sanguinosi per la popolazione di Kiev, proprio ieri culminati nel più massiccio attacco aereo dall’inizio della guerra. La porta chiusa della Nato non ha dunque avvicinato la pace. Ha però aperto due problemi molto delicati. Il primo riguarda le forme di deterrenza alternative che dovranno essere offerte — in mancanza della Nato e del suo articolo 5 — per assicurare a Kiev una pace duratura. La mancata adesione alla Nato e al suo ombrello nucleare renderà più arduo il compito per chi vorrà farsi carico di preservare un’intesa di pace. Il Consiglio europeo, il giorno dopo il vertice Nato, ha ribadito che i 27 sono «pronti a contribuire a garanzie di sicurezza sostenendo le capacità di deterrenza dell’Ucraina». Ma senza la deterrenza Nato questo impegno potrebbe rivelarsi gravoso per la coalizione dei volenterosi europei. La seconda conseguenza è che senza adesione alla Nato si rende ancora più necessario fornire una prospettiva di ingresso nell’Unione europea all’Ucraina. Ma qui il veto ungherese si fa sentire eccome. La Commissione ha fatto il lavoro istruttorio, anche raggruppando per blocchi i capitoli del negoziato previsto, ma Orbán tiene tutto fermo e nessun negoziato formale è finora partito, su nessun capitolo. E tutti sanno che una volta raggiunta, non si sa bene come, l’unanimità, si entrerà in una discussione difficile e con serie implicazioni per il bilancio Ue, soprattutto per i fondi di coesione e la politica agricola comune.
 
Gaetano Quagliariello, Il Giornale
Qual è la vera essenza di Donald Trump: è isolazionista o interventista? Se davvero si cerca una risposta al quesito, e non una conferma al pregiudizio, osserva sul Giornale Gaetano Quagliariello, bisogna interrogare la storia americana e quella dei suoi Presidenti. Così solo si può capire “il conflitto breve” tra Trump e l’Iran. Almeno dalla metà del secolo scorso, quando la Storia bussa alla porta, il Presidente degli Stati Uniti d’America non è né isolazionista né interventista. È innanzitutto un comandante in capo di fronte alla propria responsabilità. Roosevelt prometteva ai suoi elettori che i ragazzi americani non sarebbero mai sbarcati in Europa. Ma dopo Pearl Harbor si alleò con Churchill e Stalin contro il Terzo Reich. George W. Bush si era presentato come il volto umano del Partito Repubblicano: “compassionate conservatism”. All’indomani dell’11 settembre, però, si trasformò nel martello dell’Occidente in una guerra asimmetrica. Barack Obama, Premio Nobel per la pace, autorizzò un record di raid con i droni e volle apporre il suo autografo sull’uccisione di Bin Laden. Resta imperitura, insomma, una regola del jacksonismo: l’America colpisce solo quando lo ritiene necessario ma quando lo fa, lascia il segno. Puoi anche presentarti come l’outsider che vuole tenere l’America fuori dal mondo. Ma se abiti alla Casa Bianca il mondo viene a cercarti. E non puoi far finta di niente. D’altro canto, non andrebbe dimenticato che già nel 2020 il Presidente Trump aveva fatto saltare il banco con l’Iran. Ordinò, allora, di vaporizzare a Baghdad il convoglio che scortava il generalissimo iraniano Soleimani, capo delle forze Qods, l'élite dei pasdaran. Stavolta ha fatto di più. Ha colpito l'infrastruttura bellica più importante, non un bersaglio simbolico: i siti nucleari, il cuore del regime.
 
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