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Israele-Iran, un'altra partita

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 20/06/2025

Israele-Iran, un'altra partita Israele-Iran, un'altra partita Federico Rampini, Corriere della Sera
Iran non è Gaza, in molti sensi, sottolinea Federico Rampini sul Corriere della Sera. Estensione, forza militare, storia del regime ne fanno un avversario più temibile di Hamas, anche se meno formidabile di quanto voglia far credere. D’altra parte l’offensiva di Netanyahu contro la Repubblica islamica è molto più popolare fra gli israeliani di quanto lo siano i combattimenti nella Striscia. Anche all’estero il clima è diverso. Nazioni arabe che denunciano con indignazione le sofferenze inflitte alla popolazione palestinese, sono invece ambigue sull’Iran: la condanna dell’attacco è blanda, nasconde un segreto desiderio che vinca Tel Aviv. Il mondo arabo sunnita subisce dal 1979 aggressioni multiple, dalla delegittimazione ideologica, fino alle guerre di milizie armate da Teheran. In quell’area l’uso che gli ayatollah fanno dello scisma sciita viene considerato una maschera dell’antico imperialismo persiano; idem per la strumentalizzazione cinica dei palestinesi, usati come una pedina nel risiko mediorientale. Anche altrove nel mondo si affaccia una possibilità: forse Israele è sul punto di chiudere la minaccia persiana degli ultimi 46 anni? Il cancelliere Merz osa dire ciò che altri pensano: «Israele fa il lavoro sporco per noi». Le pedine agli ordini di Teheran erano funzionali al disegno messianico che la teocrazia ha scolpito nella propria costituzione: distruggere Israele e sterminare gli ebrei; cacciare il Grande Satana americano dal Medio Oriente; assumere il controllo dei luoghi sacri della fede, la Mecca e Medina, quindi annettendosi l’Arabia dopo averne deposto la casa reale.  Malgrado il crescente isolamento internazionale di cui soffre Tel Aviv, dal 7 ottobre 2023 Israele ha assestato colpi tremendi ai tentacoli della piovra iraniana: ha decapitato Hamas, Hezbollah, il regime di Assad in Siria. Di quello che la propaganda iraniana chiamava l’Asse della Resistenza, al momento restano gli Houthi dello Yemen, non si sa per quanto. Riguardo all’altro Asse, quello fra Mosca Pechino e Teheran, colpisce lo spettacolo d’impotenza di russi e cinesi: protestano ma non sono in grado di interferire. Per l’America di Trump questo Israele è l’alleato ideale: mette ordine nella propria regione, elimina o azzoppa i nemici degli Stati Uniti, ma con una dipendenza limitata dagli aiuti di Washington.
 
Umberto Galimberti, la Repubblica
Si stanno svolgendo in Italia gli esami di maturità che dal 1997, ricorda Umberto Galimberti su Repubblica, con la riforma della scuola attuata dal Ministro Luigi Berlinguer, oggi si chiama esame di Stato. In questo caso non si tratta solo di un innocuo cambio del nome, ma di una precisa limitazione del compito della scuola alla sola istruzione. Quel che resta fuori, e che invece la parola maturità comprendeva, è l’educazione. Il cambio del nome è stato opportuno perché la scuola italiana istruisce, ma non educa. Dico questo perché l’istruzione è una trasmissione di contenuti culturali e scientifici da chi li possiede (gli insegnanti) a chi non li possiede (gli studenti); l’educazione invece accompagna gli studenti, in quella stagione incerta che si chiama adolescenza, nel loro percorso di evoluzione psicologica, mai così problematico e turbolento come in quell’età. Si è soliti pensare che l’educazione altro non sia che un derivato dell’istruzione. Ma le cose non stanno così. È semmai l’istruzione un evento che può realizzarsi solo a educazione in corso, perché, come diceva Platone, “la mente non si apre se prima non hai aperto il cuore”. Ma quanti sono gli insegnanti che aprono il cuore? E quanti si limitano a svolgere i programmi ministeriali senza nessuna empatia per i loro studenti? L’educazione è essenziale perché, a differenza degli animali, gli uomini non hanno istinti, che sono risposte rigide a uno stimolo, ma solo pulsioni a meta indeterminata, per cui, ad esempio, una pulsione aggressiva può esprimersi nella violenza ma, se educata, può tradursi in una seria presa di posizione. La mancata educazione delle pulsioni confina i ragazzi a esprimersi solo con i gesti violenti, invece che con le parole e i ragionamenti. I sentimenti non li abbiamo per natura, ma per cultura. I sentimenti si imparano. Per educare è necessario comporre classi di 12 o al massimo 15 studenti. Se invece le classi sono di 30 studenti, allora si è deciso a priori che l’educazione non è prevista tra i compiti della scuola. Se nelle nostre scuole è prevista solo l’istruzione e non l’educazione trovo opportuno, ma anche mortificante, che l’esame finale non si chiami più “maturità” bensì “esame di Stato conclusivo del corso di studio di istruzione secondaria superiore”. È triste vero? Ma almeno questa dizione dice la verità sulla nostra scuola.
 
Giuseppe Laterza, La Stampa
In occasione del Festival internazionale di economia – scrive sulla Stampa Giuseppe Laterza – un economista di Stanford ha affrontato un tema essenziale, anche per il futuro dei giovani a cui il festival era dedicato. Matthew Jackson ha mostrato una serie di evidenze statistiche sulla relazione tra l’aumento delle disuguaglianze in America e la mobilità sociale decrescente. Secondo Jackson la principale ragione di questa relazione perniciosa risiede nel ruolo che hanno le reti sociali – misurabile attraverso Facebook – per cui già in giovane età si crea una netta separazione tra individui provenienti da ambienti sociali diversi. In sostanza, nei dati americani si conferma ciò che ciascuno di noi può osservare ogni giorno anche in Italia: nell’inserimento nel mondo del lavoro (e di conseguenza anche nel livello dei consumi) incidono molto le relazioni che si creano fin dall’infanzia. Anche intorno ai libri – continua Laterza – si creano comunità trasversali a diverse fasce sociali: accade nei tantissimi gruppi di lettura sparsi nel nostro paese, nelle biblioteche e nelle librerie ma anche nei tanti festival in cui si incontrano persone di ogni età e condizione sociale. Ecco perché è così importante che questa capacità di aggregazione “egualitaria” dei libri venga utilizzata al massimo anche nella scuola. In tutte le scuole è fondamentale che ci sia una biblioteca ben funzionante, cioè un luogo spazioso, accogliente e ben fornito. Ma soprattutto che ci sia una persona che per competenza specifica sappia creare intorno ai libri una comunità di giovani lettori, diversi per estrazione sociale ma uniti dalla curiosità e dalla capacità di immaginazione. Questa figura professionale, il bibliotecario scolastico, che esiste in molti paesi europei, è assente in Italia, dove questo lavoro essenziale è lasciato alla buona volontà dei docenti. Cosa aspettiamo a fare questa piccola ma fondamentale riforma? Il giorno dell’inaugurazione del Salone del libro ne avevo accennato al Ministro Giuli, incontrato sull’aereo da Roma a Torino. Mi aveva detto che ne avrebbe parlato con il collega Valditara… Lo avrà fatto?
 
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