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La morsa doppia
Iran, le scelte di Trump
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 18/06/2025

Nel suo secondo mandato – scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera – un Donald Trump molto più interventista, autoritario, imperiale, ha incassato in varie parti del mondo delusioni e sconfitte impreviste che gli hanno reso sempre più difficile applicare le tre regole attorno alle quali, in gioventù, il suo temperamento è stato plasmato dal suo mentore, Roy Cohn: attacca sempre, non fare mai ammissioni, dichiarati ogni volta vincitore. Dai dazi (imposti, sospesi, rilanciati, rinviati e uno scontro con la Cina concluso con un accordo vantaggioso per Pechino) all’Ucraina (col presidente costretto a dire che quando prometteva la pace in 24 ore, scherzava), passando per i tentativi falliti di ottenere un cessate il fuoco a Gaza, Trump ha dovuto ricorrere ad acrobazie dialettiche per nascondere l’inefficacia delle sue mosse. Sulla guerra tra Israele e Iran, però, il presidente è oramai al momento della verità, non può più sostenere tutto e il contrario di tutto come ha fatto fin qui. Ora è agli ultimatum che preludono all’intervento militare Usa che pure lui aveva giurato di voler evitare. Non d’accordo con Netanyahu, ma spinto da lui sul piano inclinato di un’offensiva militare israeliana di efficacia devastante che può ridisegnare la mappa del Medio Oriente, ora gli si impone una scelta drammatica: se la sua combinazione di persuasione e coercizione non avrà successo, dovrà decidere se trasformare la guerra di Israele in una guerra degli Stati Uniti con l’intervento diretto dei suoi bombardieri e dei suoi piloti. Una scelta drammatica per le enormi conseguenze internazionali che potrà avere, ma anche per i problemi interni che Trump deve fronteggiare: aveva promesso di essere un presidente di pace, avverso a ogni nuovo conflitto e ora la prospettiva di un intervento in Iran spacca il partito repubblicano, ma soprattutto il fronte dei Maga, coi suoi sostenitori più accesi, come la star televisiva Tucker Carlson, che avevano creduto in un Trump sostanzialmente isolazionista.
Stefano Folli, la Repubblica
Non è chiaro – commenta Stefano Folli su Repubblica – il motivo per cui una parte dei progressisti italiani (tali si definiscono) abbiano deciso di tornare in piazza sabato prossimo. Il tema è lo stesso: la protesta contro la guerra, il riarmo e soprattutto Israele. Quindici giorni fa, tuttavia, c’era un tema unificante: la tragedia umana di Gaza contro cui elevare un grido purtroppo inutile ai fini pratici, ma gratificante per la coscienza morale dei partecipanti. Da allora le notizie sono state due. La prima è l’attacco di Israele a Teheran, mirato a disinnescare in modo definitivo una minaccia esistenziale per lo Stato ebraico: la bomba atomica ormai vicina a essere nelle mani degli ayatollah. E poi la seconda, appena ieri sera. Trump che lascia senza tanti complimenti il G7 del Canada e poi annuncia che gli Stati Uniti vogliono la resa incondizionata dell’Iran. È la conferma che Washington è stata fin dall’inizio della crisi con Gerusalemme; e ora offre il suo appoggio decisivo, politico e militare, per abbattere il regime degli ayatollah (“sappiamo dove si nasconde la guida suprema, Khamenei”). “Resa incondizionata”. La stessa che fu imposta all’Italia dagli alleati l’8 settembre del 1943 e che noi chiamiamo in modo pudico “armistizio”, così da sterilizzare la realtà. Oggi siamo alla vigilia di un evento destinato a cambiare gli equilibri del Medio Oriente. E non solo. Sarebbe anche questo un grande tema che unifica. Un tema in cui possono ritrovarsi coloro che si sentono dalla parte dell’Occidente e intendono salvaguardarlo. È dunque questo il momento per schierarsi contro l’alleanza occidentale (Stati Uniti, Israele, nella sostanza anche l’Unione europea) quando si sta assestando un colpo forse fatale a uno dei regimi più odiosi del mondo? Ancora una volta il centrosinistra si frantuma sulla crisi internazionale.
Veronica De Romanis, La Stampa
Servono risorse, molte, per la difesa, sottolinea sulla Stampa Veronica De Romanis. Ma anche per far fronte alle nuove sfide, a cominciare da quella demografica. «I margini sono stretti», questa la risposta più frequente tanto da parte di chi ha responsabilità di governo quanto da chi è all’opposizione. Così, si invocano fondi europei: quanto ci piace spendere i soldi degli altri. Che, però, potrebbero non arrivare, almeno non a breve. Ma, allora, che fare? In realtà, a ben vedere, i margini dove trovare i soldi ci sarebbero. E sono anche ampi. Si chiamano tax expenditures (spese fiscali) e ammontano a circa 100 miliardi di gettito non riscosso. Ma andiamo con ordine.
Come spiegato dalla Commissione per la redazione del rapporto annuale sulle spese fiscali istituita dal governo nell’ultimo Rapporto 2024, le tax expenditures sono quella giungla di deduzioni e detrazioni che ogni anno «riducono o pospongono il gettito per specifici gruppi di contribuenti». L’Italia è il Paese con il maggior numero di voci. Eppure, tutte le forze politiche promettono, quando sono in campagna elettorale, di tagliarle in modo da ottenere fondi per finanziare le spese. Poi, però, una volta al governo agiscono in senso opposto. Basti pensare che nel 2016 le voci erano 444 per poi salire a 625 nel 2023, con un incremento del 30 per cento. Lo scorso anno il numero è sceso a 575, un calo principalmente ascrivibile ad una ridefinizione sulla base dei criteri usati dalla Commissione europea. Nello specifico, quando una deduzione o una detrazione viene applicata ad una platea rilevante di persone diventa “strutturale” e, di conseguenza, non viene più classificata come “spesa fiscale”. Il caso tipico è quello delle aliquote Iva ridotte. A seguito della revisione condotta da Bruxelles le voci escluse dal gruppo delle tax expenditures sono circa diciotto a cui si aggiungono le misure in materia di accise. A conti fatti, la riduzione del numero delle deduzioni e detrazioni registrata nel 2024 non sembra essere l’inizio di un trend destinato a durare bensì il mero effetto di un intervento contabile. Il quadro continua, quindi, ad essere drammatico.
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