Versione stampabile Riduci dimensione testo Aumenta dimensione testo

Fallimenti da evitare

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 16/06/2025

In edicola In edicola Angelo Panebianco, Corriere della Sera
“Mutamento di regime, regime change? È davvero questo, oltre alla distruzione del suo potenziale nucleare, l’obiettivo di Israele nella guerra con l’Iran?” Angelo Panebianco sul Corriere della Sera analizza i possibili scenari geopolitici con il conflitto in Iran “In Occidente – scrive l’editorialista - l’espressione regime change è stata a lungo associata all’idea che fosse possibile «esportare la democrazia» con la forza delle armi. Si può però anche usare l’espressione in modo neutro, senza presumere che il crollo di un regime dittatoriale debba necessariamente lasciare il posto a una democrazia. Cosa ci dice l’esperienza accumulata su come avvengono i mutamenti di regime, intesi come sostituzione di un regime politico con un altro quale che esso sia? Di sicuro, sappiamo come tali mutamenti non avvengono: non avvengono (solo) a causa di un intervento militare esterno né (solo) a causa di manifestazioni di protesta interne. Nel caso dell’Iran un regime come quello degli Ayatollah, usurato, delegittimato, difficilmente potrebbe oggi rafforzarsi a causa dell’attacco israeliano. L’intervento esterno, e i pesanti costi che esso infligge al Paese, possono piuttosto favorirne l’ulteriore usura. Assai difficilmente, però, ne causeranno il crollo e la sua sostituzione con un regime diverso. Se l’intervento militare esterno (da solo) non può provocare il regime change – spiega Panebianco - non possono nemmeno riuscirci (da sole) le manifestazioni di protesta. Le manifestazioni di piazza, per lo più, vengono represse nel sangue, punto e basta. E allora, cosa può provocare un regime change? L’esperienza accumulata dice che i regimi dittatoriali per lo più crollano quando si verifica una spaccatura, radicale e insanabile, all’interno delle classi dirigenti che li sostenevano. La conclusione è che per capire se e quando il regime degli Ayatollah crollerà occorrerà, come da sempre fanno gli specialisti occidentali di quel Paese (sia gli studiosi indipendenti sia i servizi di intelligence), tenere d’occhio le eventuali crepe che si apriranno, se si apriranno, nei ranghi della sua classe dirigente. Se e quando tali crepe si manifesteranno e se risulteranno sufficientemente larghe, allora forse assisteremo a un regime change. Se è assai dubbio che l’azione militare di Israele possa provocare da sola il crollo del regime iraniano (a meno, per l’appunto, di divisioni forti entro la sua classe dirigente), può invece—questo sì —provocare un pesante ridimensionamento del suo ruolo internazionale, può comprometterne lo status di potenza regionale”.
 
Guido Tabellini, la Repubblica
Guido Tabellini su Repubblica parla di Europa, allargamento e coesione: “Tra poche settimane – scrive l’editorialista - ricorrerà l’anniversario del Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985. In quell’occasione, su impulso dell’Italia e del governo Craxi, partì un percorso ambizioso e lungimirante, che portò al mercato unico e poi successivamente alla moneta unica e a importanti riforme delle istituzioni europee. Nel presentare il suo ambizioso rapporto sulla competitività al Parlamento Europeo, Mario Draghi ha spiegato perché i paesi europei dovrebbero ‘agire sempre di più come se fossimo un unico stato’. Ma né lui né altri si sono azzardati a suggerire che ciò richiederebbe anche più integrazione politica, dando implicitamente per scontato che agire come un unico stato sia possibile nell’ambito dei trattati esistenti. Questo contrasto, tra l’enfasi degli anni ’80 e ’90 su ‘un’unione sempre più stretta’, e il minimalismo europeo di oggi, è paradossale. La causa principale di questo minimalismo europeo non è l’allargamento a Est, né la diversità di interessi tra paesi. Il vero freno all’integrazione è interno: è l’emergere di partiti nazionalisti e populisti in quasi tutte le democrazie europee. Due caratteristiche delle sue istituzioni hanno contribuito a rafforzare nazionalismo e populismo. Da un lato – osserva Tabellini - abbiamo creato un’élite di burocrati europei isolati dal dibattito politico nazionale, ma che tuttavia hanno un grande impatto sulla vita dei cittadini.  Dall’altro, le decisioni politiche europee sono dominate dai governi. Ma poiché ogni governo deve rendere conto ai suoi elettori, inevitabilmente il dibattito europeo diventa un dibattito tra opposti interessi nazionali. È difficile pensare che si possa uscire da questa impasse senza riaprire il cantiere delle riforme istituzionali. Non è detto che un progetto più ambizioso, guidato dall’obiettivo di rendere l’Europa più democratica e più integrata politicamente, sia più irrealistico dell’attuale approccio minimalista, che cerca di cambiare l’Europa senza toccare i trattati. Naturalmente è possibile che non tutti i 27 stati membri siano pronti. Ma l’idea di una ‘unione sempre più stretta’ potrebbe ripartire da un nucleo più esiguo di paesi, determinato a riformare le istituzioni europee anche per renderle più democratiche”.
 
Salvatore Rossi, La Stampa
“Acque agitate nel capitalismo italiano, soprattutto fra le banche e le assicurazioni: offerte pubbliche di acquisto o di scambio, triangolazioni, dichiarazioni contrastanti fra loro di questo o quell’azionista importante di grandi aziende quotate alla borsa valori”. Così Salvatore Rossi sulla Stampa in un editoriale sul ruolo dei fondi di investimento: “La proprietà o la gestione di alcune fra queste aziende potrebbe cambiare nei prossimi mesi. Tutto questo – sottolinea Rossi - è l’essenza del capitalismo in un’economia di mercato. Purché avvenga con trasparenza nei confronti del pubblico, e le motivazioni di tutti siano squisitamente economiche, cioè riguardino il modo ritenuto migliore di condurre l’azienda nell’interesse dei suoi azionisti, anche nel lungo termine. Ma le cose in Italia non corrispondono alle forme ideali disegnate nei manuali. Perché? L’ostilità delle due grandi correnti di pensiero che hanno da noi a lungo dominato la politica, riducendo il pensiero liberale in un angoletto di irrilevanza, ha frenato il transito della nostra economia verso le forme evolute che si sono affermate negli altri grandi Paesi occidentali. Le poche grandi imprese sono state in prevalenza di proprietà dello Stato per decenni. In generale, l’ingerenza della politica nelle imprese era ed è tuttora forte. Tuttavia, dai tempi di Carlo Marx una novità radicale ha cambiato i connotati del capitalismo nel mondo: l’avvento e la diffusione dei fondi d’investimento. In Italia i fondi d’investimento pesano per oltre metà del capitale delle imprese quotate. La loro presenza sta contribuendo, pur con errori, a sollevare il nostro capitalismo dai fondali di un sistema ancora arcaico in alcuni suoi tratti. Di recente si sono levate in diverse parti del mondo voci critiche nei confronti della libertà d’impresa e di scambio, sia dalla destra sia dalla sinistra degli schieramenti politici. Le ragioni sono spesso nobili e meritevoli di discussione, alcune volte non hanno fondamento razionale. Il rischio è comunque che il capitalismo italiano, rachitico e zoppicante, finisca travolto da quest’ondata antiliberale prima di avere raggiunto un sufficiente grado di maturità, mentre altrove – conclude - sistemi più sviluppati e robusti resisteranno alla buriana e potranno riemergere più forti e competitivi”.
Altre sull'argomento
Altro parere
Altro parere
La destra si vergogna di quello che è. La sinistra di quello che ...
Lo spread e i brindisi da evitare
Lo spread e i brindisi da evitare
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Altro parere
Altro parere
Sogno di mezza estate
Dazi, Trump gioca a gatto e topo
Dazi, Trump gioca a gatto e topo
Incertezza sulle trattative con l'Unione europea
Pubblica un commento
Per inserire un nuovo commento: Scrivi il commento e premi sul pulsante "INVIA".
Dopo l'approvazione, il messaggio sarà reso visibile all'interno del sito.