Zelensky: «Ora non calino gli aiuti per Kiev»
«Gli americani ci avevano promesso 20 mila missili per bloccare i droni iraniani», riavvolge il nastro dei ricordi
Volodymyr Zelensky, intervistato da
Francesco Battistini, sul
Corriere della Sera di domenica 15 giugno. Ma all'ultimo li avevano dirottati su Israele: «Per noi è stato un brutto colpo. Quando affronti 300-400 droni al giorno, molti li abbatti, ma qualcuno passa sempre. E noi ci facevamo conto, su quei 20 mila missili». E poi: quand'era uscita la notizia che Israele avrebbe mandato a Kiev i suoi vecchi Patriot — tutta ferraglia della Guerra del Golfo primi anni '90 —, il governo israeliano s'era seccato, addirittura smentendo. E ancora: c'era un sistema di difesa aerea Barak-8, che Bibi Netanyahu aveva promesso a Zelensky, e che invece è stato stranamente spedito in America «per riparazioni: non ci è mai stato consegnato». Era tutto chiaro. Stava cominciando un'altra guerra agli ayatollah. E ora bisogna capire che cosa succederà: il conto, rischia di pagarlo Kiev. E già successo con la crisi di Gaza nell'ottobre '23 e con gli attacchi del `24, si ricordano qui. «E spero che gli aiuti non diminuiscano per questa ragione», è preoccupato il presidente ucraino: «L'ultima volta, questo fu un fattore che rallentò il sostegno all'Ucraina». Poi è arrivato Trump e a quel punto anche dall'Europa s'è notata la diversa postura: gli aiuti sono rallentati e non appena gli europei «hanno visto che dagli Usa non c'era la stessa spinta, sono cominciati a sorgere i dubbi». I vasi delle guerre globali sono comunicanti. E gli ingredienti possono cambiare rapidamente. In questa nuova alchimia mediorientale, gli ucraini vedono un possibile vantaggio e un sicuro rischio. Il primo: la distruzione delle fabbriche di droni Shahed e dei missili iraniani che Vladimir Putin sta usando fin dall'inizio della sua Operazione speciale. Il modello più recente, il V2-u modificato dai laboratori russi, s'è rivelato letale negli ultimi attacchi su Kharkiv e Kiev. E quindi non resta che tifare per i bombardieri israeliani: «Speriamo che la produzione o il trasferimento ai russi diminuiscano — commenta Zelensky —, questo ci aiuterebbe parecchio». C'è anche un pericolo all'orizzonte, però: il costo del petrolio, che sta già aumentando. Un regalo a Mosca. «Di sicuro, questo fattore non ci aiuta. E per questo che la nostra voce dev'essere più forte con gli Usa, perché introducano limiti di prezzo (sul modello del price-cap che l'Ue sta decidendo, ndr) e nuove sanzioni sull'energia». Zelensky invia un augurio di rito peri 79 anni di Trump, ma aggiunge un piccolo carico: «Il dialogo degli Usa coi russi somiglia a una conversazione calorosa. Siamo onesti: questo non fermerà Putin. E necessario un cambio di tono». Col greggio che può dare nuova linfa alla macchina militare russa, occorre sanzionare di più i barili che lo contengono, le petroliere-ombra che lo trasportano e le banche che lo trattano. «Nessuno è riuscito a fermare Putin. Rimane solo Trump. Lui può. Ma per farlo, Putin deve perdere soldi. E solo se li avrà persi, non potrà più potenziare il suo arsenale». Nei 5o minuti di telefonata fra la Casa Bianca e il Cremlino, dedicati all'Iran, s'è ovviamente parlato anche di questa guerra. Allo Zar non è bastato proporsi come interlocutore fra Netanyahu e Teheran: ha garantito che i negoziati d'Istanbul con gli ucraini p0- tranno riprendere da domenica prossima. Ho notato «il suo interesse a una pronta risoluzione del conflitto», commenta The Donald, laddove non sembra esserci nulla di nuovo: «Il memorandum che hanno portato a Istanbul — ripete il presidente ucraino —, i russi l'hanno scritto in modo che noi non fossimo d'accordo. E non potessimo mai rispettarlo». Un consigliere di «Ze» sorride, per l'autocandidatura di Vlad a mediatore e la sua condanna dei bombardamenti su Teheran: «S'è dimenticato di guardarsi allo specchio?».