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La morsa doppia
Giochi pericolosi
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 09/06/2025

Antonio Polito sul Corriere della Sera prova ad analizzare il perché del fallimento degli ultimi referendum: “La ruota dell’affluenza si è fermata poco sopra il 30%, (con il voto estero anche meno) non lasciando spazio alle acrobazie aritmetiche. La spallata al governo, insomma, non c’è stata. Ma il centrodestra – scrive l’editorialista - non può davvero cantare vittoria appropriandosi di un 70% di astenuti. Anche per non mancare di rispetto ai quattordici milioni di cittadini che alle urne invece sono andati, compreso qualche loro elettore. La verità è che gli italiani hanno rifiutato per l’ennesima volta di rilegiferare su materie già deliberate dal Parlamento. Quando pensavano che ne valesse la pena l’hanno fatto, per esempio nel 2011, no al nucleare e sì all’acqua pubblica. a è l’unico caso in trent’anni. Il referendum, strumento di democrazia diretta voluto dai nostri costituenti seppure con molte prudenze, è da tempo gravemente malato. E non è una bella cosa usare un malato per scopi politici. Ciò che è stato fatto anche questa volta. Mentre invece bisognerebbe affrontare finalmente le cause del male, per niente oscure. Vale per i proponenti, che si avvalgono sempre più spesso della facilità con cui oggi si possono raccogliere online mezzo milione di firme per indire consultazioni che tutti sanno già in partenza senza quorum. Vale per chi si oppone, e dalla comoda trincea che gli offre l’astensionismo abituale impallina così un referendum dopo l’altro. Che i referendum fossero un regolamento di conti interno era stato del resto esplicitamente ammesso dalla stessa segretaria del Pd Elly Schlein, quando ha dichiarato che servivano a fare «autocritica» e a «correggere gli errori del centrosinistra del passato». Non certo il modo migliore di motivare al voto chi è estraneo, o disinteressato, a questa guerra civile infinita che divide la sinistra tra massimalisti e riformisti. I quesiti, infine. Spesso resi astrusi dalla tecnica del «taglia e cuci»: per ottenere il risultato sperato non si propone l’abrogazione di una legge, ma di un articolo, di un comma, di una riga. Il fondato sospetto è che lasciare le cose così stia bene a tutti. A chi sfrutta i referendum per ginnastica elettorale, e a chi li spompa con la pigrizia elettorale. Ma – conclude - della democrazia per finta prima o poi la gente si stufa, e sono guai”.
Tito Boeri, la Repubblica
“Per favore non chiamate l’astensione di questi giorni ignavia democratica. L’esercizio della democrazia comporta fare un buon uso dello strumento referendario”. Tito Boeri su Repubblica ‘bacchetta’ così i promotori della recente tornata elettorale. “Questo – scrive l’editorialista - significa porre quesiti agli elettori che siano di interesse generale e a cui sia possibile dare una risposta anche senza avere competenze specifiche. Il confronto pubblico su questi temi può diventare un’occasione di crescita per tutti. Ad esempio, un referendum solo sulla cittadinanza, al di là dell’esito del voto, avrebbe potuto contribuire a creare consapevolezza sullo spopolamento in atto nel nostro Paese e ridurre la polarizzazione degli elettori su posizioni estreme in tema di immigrazione. I quesiti che sono stati posti domenica e lunedì agli elettori, con l’eccezione di quello sulla cittadinanza, non hanno certo le caratteristiche di cui sopra. Pongono una serie di quesiti incomprensibili ai non addetti ai lavori, non riguardano né una maggioranza di cittadini né temi al centro delle attenzioni degli elettori e la campagna di chi li ha proposti ha meticolosamente evitato di raccogliere e trasmettere ai votanti dati oggettivi su cui formarsi un’opinione. I licenziamenti – osserva l’editorialista - non sono al centro delle attenzioni dell’opinione pubblica per il semplice fatto che sono al minimo storico. Nel 2024 ci sono stati 42 licenziamenti ogni 1.000 lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, il livello più basso degli ultimi 20 anni, il 40% in meno di quando (in condizioni congiunturali simili) è entrata in vigore la legge che il referendum si proponeva di abolire. Ciò che è oggi al centro delle preoccupazioni delle famiglie è la perdita del potere d’acquisto dei salari. Dal 2014 a oggi la percentuale di lavoratori con retribuzioni talmente basse da non consentire loro di evitare la povertà assoluta, i cosiddetti working poor, è aumentata dal 4,9% al 7,6%. Questo è il segno evidente che il lavoro non basta per garantirsi un’esistenza dignitosa. Perché allora non sottoporre a referendum semmai la legge che priva le persone in età lavorativa di assistenza sociale, anziché il Jobs Act? La verità è che tra i proponenti dei quesiti sui licenziamenti sono ben pochi quelli che si preoccupano di studiare e ancor meno di raccogliere dati oggettivi”.
Alessandro De Angelis, La Stampa
“C’è un dato nel dato, che squaderna una questione non banale nel cosiddetto ‘campo largo’”. Ne parla Alessandro De Angelis sulla Stampa: “Al quesito sulla cittadinanza, il numero dei no raggiunge la cifra ragguardevole del 35%. Il che, tradotto, significa che i Cinque stelle, allineati al Pd nel congresso postumo sul renzismo (il Jobs act), hanno assunto una posizione autonoma e discordante annunciata dalle dichiarazioni in cui l’ex premier parlava dei suoi ‘dubbi’ in materia. Per carità – osserva l’editorialista - sono lontani i tempi in cui Giuseppe Conte, quando guidava il governo con Matteo Salvini, si presentava in conferenza stampa coi cartelli del decreto sicurezza. E tuttavia la sua linea, su immigrazione e integrazione, è assai più cauta rispetto a quella del Pd. Guardando in giro per l’Europa non è un caso isolato. Perché c’è tutto un pezzo di populismo di sinistra che poco ha che fare con la sinistra radicale che fu libertaria e ‘altermondista’, accogliente e inclusiva. Non a caso in Europa proprio il leader pentastellato voleva formare un gruppo con Sahra Wagenknecht, la leader di Bsw, che si staccò dalla Linke su posizioni rossobrune: filorusse in politica estera e di chiusura dei confini in patria. Si ripropone cioè l’“equivoco” mai sciolto di come ci si rapporta non con una costola della sinistra ma con un pezzo del populismo italiano. E, con esso, l’elemento di fragilità tutta politica di Elly Schlein. In nome dell’unità “testarda” della coalizione, ha introdotto degli elementi di divisione nel suo partito: la linea sul lavoro l’ha appaltata a Maurizio Landini, sulla politica estera le danze le mena Giuseppe Conte. Lo vorrebbe tanto assecondare sulle pulsioni pacifiste, nel frattempo lo ha assecondato su Gaza. Lì, accanto alla sacrosanta condanna di Netanyahu, sono scomparsi gli accenni al tema della sicurezza di Israele. In nome dell’unità cioè, il Pd è diventato un’altra cosa rispetto all’idea – quando nacque si disse così – di un partito con un forte ancoraggio a sinistra, ma capace di parlare a tutto il Paese e guidare una alternativa. Tra ‘resistere’, mobilitando ciò che c’è, e ‘sfidare’, conquistando alle proprie ragioni chi sta dall’altra parte, ha scelto di resistere. E infatti – conclude - su una postura del genere, l’unico collante con l’alleato populista è l’essere contro, fare cioè dell’antimelonismo il remake dell’anti-berlusconismo dei tempi d’antan”.
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