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La morsa doppia
Un po' di futuro (per il lavoro)
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 06/06/2025

Sui temi del lavoro – scrive Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera – il referendum che si terrà domenica e lunedì ha un netto «sapore d’antico». Ciò vale soprattutto per il primo quesito, che mira simbolicamente a «tornare allo Statuto». A ripristinare cioè la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento giudicato illegittimo da un magistrato: una garanzia introdotta, appunto, più di mezzo secolo fa dallo Statuto dei Lavoratori (1970). Il secondo quesito mira anch’esso ad allargare il ruolo dei giudici nella determinazione delle indennità di licenziamento nelle piccole imprese. Il terzo è a sua volta rivolto a limitare il ricorso ai contratti a termine, oggi il principale canale d’inserimento lavorativo per i giovani, introducendo l’obbligo di una causale esplicita sin dai primi dodici mesi. Nessuno nega che il mercato del lavoro italiano soffra di serie manchevolezze. Ma potendo essere solo abrogativo, il referendum promosso dai sindacati e dalla sinistra ha scelto temi che potessero essere «risolti» eliminando parti della legislazione vigente. Trascurando il fatto che la strategia del ritaglio rischia di produrre alcuni paradossali peggioramenti. La domanda cruciale da porsi è però questa: valeva davvero la pena di investire tante energie per tornare indietro? Non era meglio formulare proposte concrete sulle grandi sfide che riguardano il futuro dell’economia europea e i loro effetti sull’occupazione? Sfide che sono al centro dell’agenda sindacale (e più in generale progressista) europea? Come sottolineato dai rapporti Letta e Draghi, senza un netto recupero di competitività l’economia europea è destinata a un significativo arretramento rispetto alla Cina e ad altre regioni emergenti. A questo rischio si aggiungono le sfide della transizione energetica e della rivoluzione digitale (in particolare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale). Le conseguenze per il mondo del lavoro saranno dirompenti. Senza adeguate contromisure, l’occupazione (il suo livello, la sua «qualità») rischia di essere la vittima sacrificale per rendere possibile la conciliazione fra competitività delle imprese e sostenibilità ambientale.
Michele Ainis, la Repubblica
Un quesito sulla cittadinanza, quattro quesiti sul lavoro. Ma c’è un sesto referendum – osserva Michele Ainis su Repubblica – che reclama il nostro voto, benché non sia stampato sulla scheda. È il referendum sul referendum, sulla sopravvivenza di questo strumento di democrazia diretta. Dopo trenta consultazioni andate a vuoto, stavolta c’è proprio il rischio di celebrarne i funerali. Sicché, al di là del merito dei quesiti, sussiste una ragione più grande, più potente, per correre alle urne. È la democrazia, questa ragione. È la possibilità di praticarla, d’esercitare in concreto la sovranità che i costituenti attribuirono agli elettori, non agli eletti. Consegnandoci così una doppia scheda: la prima per scegliere i governanti che decideranno in nostro nome; la seconda per decidere in prima persona, senza deleghe, senza intermediari. Con un referendum popolare, per l’appunto. Come quello che nel 1946 battezzò la Repubblica italiana, che nel 1993 introdusse la sua seconda stagione. Due schede, come le due gambe che ci portano in giro per il mondo. Se ce ne rimane una soltanto diventiamo zoppi, così come può azzopparsi la democrazia italiana. La malattia del referendum dipende dalla sua regola cogente: il quorum. Dice l’articolo 75 della Costituzione: il referendum abrogativo è valido «se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto». Perché i costituenti adottarono questo sbarramento? In parte per scongiurare il pericolo che una legge, magari approvata a larga maggioranza in Parlamento, fosse poi bocciata da una sparuta minoranza d’elettori. In parte per misurare la serietà della proposta, il suo rapporto con tematiche d’interesse davvero generale. Se tu indici un referendum per abrogare la legge sui prosciutti (in Italia abbiamo pure quella: n. 401 del 1985), io resto a casa, ho di meglio da fare. Ed ecco perché il referendum costituzionale non ha quorum: in quel caso la consultazione popolare è sempre rilevante, dato che si tratta d’emendare la Costituzione. Sennonché il quorum, nel corso degli ultimi decenni, si è trasformato in una diga, in un muro di cemento che risulta pressoché impossibile scalare. Chi ha a cuore la democrazia dei referendum potrà proporre di correggerne le regole, abbassando il quorum e magari innalzando il numero di firme necessarie per richiederli. Ma l’8 e il 9 giugno serve un voto, alla faccia di ogni veto
Luca Diotallevi, Il Messaggero
In conseguenza dello stesso principio costituzionale e democratico, sottolinea sul Messaggero Luca Diotallevi, chi non vuole che una norma oggetto di referendum sia modificata (abrogata o corretta), riceve della Costituzione due strumenti. Uno sicuro, non recarsi al voto, l’altro rischioso, recarsi al voto e votare «no». Il rischio dipende dal fatto che chi vota «no» con il proprio atto di partecipazione al voto aumenta la probabilità che un «sì», incapace di essere maggioranza, abbia però – in virtù del raggiungimento del quorum – il potere di modificare una legge, questa sì, invece, votata a maggioranza da Parlamento. La «retorica sulla partecipazione» che ascoltiamo in questi giorni è irricevibile per almeno quattro ragioni. La prima è che in un referendum non partecipare al voto non solo è pienamente legittimo, ma ha anche un preciso significato politico. La seconda è che, ormai, alla «retorica sulla partecipazione» ricorrono partiti che in altre circostanze hanno cavalcato l’arma della astensione referendaria. Ormai non c’è alcuna formazione politica rilevante che non sia ricorsa a quest’arma e che poi faccia finta di non ricordarlo. La terza ragione è che la «retorica sulla partecipazione» cerca di far dimenticare che la partecipazione elettorale è un dovere di legge solo nelle dittature. Nei paesi civili, al contrario, il voto è libero, non solo nel senso che si può scegliere chi votare, ma anche nel senso che si può scegliere se votare, a maggior ragione in un referendum. La quarta ragione che rende insostenibile la «retorica sulla partecipazione» cui ricorrono coloro che misconoscono la piena legittimità ed il preciso significato politico della astensione referendaria è che essa tende a presentare il voto come un rito e non come uno strumento. Difficile trovare un modo più raffinato ed efficace di questo per sabotare la democrazia. La democrazia vive se e perché gli elettori e le elettrici sanno e, soprattutto, sperimentano che il loro voto conta, decide, pesa (come avviene in un ballottaggio, tanto per intenderci, dove ogni voto è decisivo). Al contrario la democrazia viene avvelenata, e poi pian piano muore, quando il voto viene presentato come un rito.
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