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Vecchi riti e bersagli sbagliati
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 21/05/2025

Sul Corriere della Sera Antonio Polito rileva come lo scontro in seno alla maggioranza sul terzo mandato per i governatori leghisti non abbia prodotto alcuna crisi di governo. Anzi, osserva, oggi è paradossalmente una prova della sua stabilità. Perché lo scontro sul terzo mandato, così come quello che sotto traccia si era svolto sulla riforma dell’autonomia differenziata, l’ennesimo pasticciotto Calderoli poi smontato pezzo a pezzo dalla Corte costituzionale, se da un lato rivela una profonda differenza di concezione dello Stato tra i partiti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, dall’altro lato conferma che sono condannati a stare insieme. Sbaglia dunque l’opposizione, secondo Polito, la quale insiste invece pavlovianamente su una vecchia tattica: provare a dividere gli avversari per indebolirli. Con l’effetto boomerang di colpire spesso la sua stessa credibilità di futura forza di governo, con cortocircuiti logici e politici al limite del surreale. Perché infatti il Pd attacca il governo Meloni mentre fa una cosa che condivide, e cioè dice no al terzo mandato? Lo stesso vale per materie più complesse e delicate, decisive per dimostrare una maturità da forza di governo. La politica internazionale, per esempio. Qualche giorno fa mi sono sorpreso ad ascoltare la veemenza con cui Giuseppe Conte sparava a pallettoni contro Giorgia Meloni accusandola di essersi isolata, o di essere stata isolata, dal gruppo dei Volenterosi sull’Ucraina; quando egli stesso è notoriamente e furiosamente contrario a quella iniziativa di Francia e Germania, al piano di riarmo di Ursula von der Leyen, all’ipotesi di mandare truppe in Ucraina e perfino a ogni ulteriore aiuto militare al paese aggredito da Putin. Conte avrebbe dovuto applaudire una premier che si allontana dall’Europa: è quello che farebbe lui se fosse al suo posto. E invece...
Maurizio Molinari, la Repubblica
A quattro mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, commenta su Repubblica Maurizio Molinari, il corteggiamento negoziale di Donald Trump nei confronti di Vladimir Putin non ha ancora portato a reali passi avanti verso la tregua in Ucraina ma un risultato c’è: fa emergere la volontà del Cremlino di non rinunciare alle ambizioni su Kiev né al disegno di modificare a proprio favore l’equilibrio di sicurezza in Europa. Trump deve ammettere che le offerte di grandi intese commerciali non hanno fatto breccia perché Putin continua a preferire il disegno strategico pan-russo alla realpolitik. Putin mantiene intatto l’obiettivo strategico che lo portò ad aggredire l’Ucraina il 24 febbraio 2022 e sfrutta le aperture di Trump per rafforzarsi il più possibile: creando un cuneo politico fra Usa ed Europa, bersagliando l’Ucraina dal cielo con attacchi sempre più massicci e forse preparando un colpo di mano a Kiev o un’offensiva d’estate per travolgere il nemico grazie ai rinforzi della Nord Corea e alla mobilitazione di più contingenti. Sebbene Trump si consideri il «maestro degli accordi» al momento sembra essere finito nelle mani di Putin. E in qualche maniera lui stesso lo ha ammesso, in un momento di sconforto, rivelando la sensazione di un Putin che «tira alle lunghe». C’è un dettaglio rivelatore del diverso approccio: Trump afferma che «questo è un conflitto nel quale ogni settimana le parti perdono migliaia di soldati» contando sulla volontà di entrambi di porre fine alla carneficina mentre la feroce battaglia di Bakhmut insegna che gli ufficiali russi non battono ciglio davanti a perdite ingenti. Ma non è tutto, perché mentre Putin chiede agli ucraini di «iniziare a negoziare» continua a muovere le pedine sulla scacchiera europea in maniera aggressiva. Il rafforzamento della base di Kamenka a ridosso della Finlandia lascia intendere la volontà di portare instabilità non solo nel Mar Nero ma anche nel Mar Baltico.
Eugenia Tognotti, La Stampa
Sulla Stampa Eugenia Tognotti critica la decisione di ieri dell’Italia di astenersi sul patto giuridicamente vincolante adottato dall’Assemblea Mondiale della Sanità a Ginevra dopo tre anni di faticosi e complicati negoziati, che mira a fare tesoro degli insegnamenti del Covid-19. Con il nostro Paese, sullo stesso fronte di retroguardia, anche Russia, Slovacchia, Iran, Polonia, Giamaica, Israele, Romania, Paraguay, Guatemala. La feroce pedagogia di quella pandemia ci aveva impartito una lezione che rimarrà negli Annali: la prossima minaccia pandemica potrà essere allontanata quanto meglio, più velocemente e più equamente i Paesi saranno in grado di raggiungere un accordo per prevenirla e rispondere al meglio, con l’obiettivo di rendere le forniture mediche come i vaccini, più accessibili in ogni angolo del pianeta. Come dimenticarla in un tempo così breve? Eppure è quello che è successo all’Italia o meglio a chi ha tra le mani la responsabilità della salute pubblica. Che decisione – davvero singolare nell’abito della salute pubblica – è quella di astenersi, di non schierarsi, di non assumere una decisione, sostenendola con ragionamenti basati sull’evidenza scientifica se si ritiene di essere nel giusto? A fronte di una minaccia pandemica «il punto chiave è la tutela della sovranità degli Stati», a quanto pare, per riprendere le parole del ministro della Salute Orazio Schillaci. Il quale in un documento ha voluto fornire una «spiegazione del voto»: dal punto di vista del governo, la preoccupazione incombente è che in caso di pandemia un’autorità sovranazionale come l’Oms possa imporre dall’alto misure ai singoli Paesi. Insomma, vade retro OMS. Se non abbiamo male interpretato le sue parole, il nostro Paese (o meglio il governo) vuole esprimere con l’astensione la propria posizione relativamente all’esigenza di ribadire un concetto: nel far fronte alle questioni di salute pubblica, la sovranità degli Stati è un “valore” prevalente su tutto.
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