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Redazione InPiù 16/05/2025

La Russia e il suo presidente – commenta Marco Imarisio sul Corriere della Sera – sono interessati a una cessazione delle ostilità molto più di quanto entrambi siano disposti ad ammettere, o a mostrare in pubblico. Al solito orario improbabile, poco dopo aver reso pubblico l’elenco dei negoziatori che in prima battuta sarebbero partiti per Istanbul, nella notte tra mercoledì e giovedì Vladimir Putin ha convocato al Cremlino una riunione ad altissimo livello, quasi una specie di Consiglio di sicurezza allargato. La composizione della squadra che da ieri si trova in Turchia indica forse ambizioni e aspettative piuttosto contenute, ma non è neppure detto che questo sia un male. Vladimir Medinsky è l’uomo che nella primavera del 2022 condusse le trattative di Istanbul poi naufragate, ma è chiaro che il punto di ripartenza per il Cremlino rimane proprio quell’accordo che secondo la visione di Putin sarebbe stato siglato se non fosse intervenuto l’Occidente, guerrafondaio per ormai consueta definizione russa. Una buona metà della delegazione è rappresentata da militari con ampia conoscenza della situazione al confine tra Russia e Ucraina, capaci di entrare nel dettaglio della logistica sul terreno. Come fare le cose, in che modo gestire un eventuale congelamento della linea del fronte. Alla fine, si torna sempre a questa ipotesi di natura «coreana», una fine della guerra senza che mai sia stato dichiarato un vero armistizio, che aleggia fin dal primo giorno di questa tragedia. Questa volta, persino Putin mostra qualcosa di simile alla disponibilità, un generico interesse a provarci davvero. Il Secondo Avvento di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato le sue priorità. Al presidente russo non dispiacerebbe continuare la guerra, sente di avere un vantaggio che vorrebbe sfruttare con una nuova offensiva. Ma ritiene molto più importante la conservazione dell’amicizia appena sbocciata con il presidente americano che nel lungo periodo può portare a intese sull’Artico, sul gas, sui prezzi del petrolio, il cui calo drastico rischia di strangolare la già traballante economia russa. La fine delle ostilità può diventare lo strumento per guadagnarsi a titolo durevole, se non definitivo, la fiducia della Casa Bianca.
Paolo Garimberti, la Repubblica
Nonostante gli insulti volati ieri tra Mosca e Kiev (una non tanto nobile gara a chi dava con più forza del “pagliaccio” all’altro), il degradato incontro di Istanbul ha la sua importanza, sostiene Paolo Garimberti. Perché – osserva – mette definitivamente a nudo lo zar, svelando il suo bluff di qualche giorno fa (pronto a negoziati «senza precondizioni») che pure qualcuno, più da parte americana che europea, era pronto ad accettare. Ma ancora di più perché questa ennesima presa in giro può far pendere l’ago della bilancia americana dalla parte ucraina, dopo che sembrava definitivamente schiacciato da quella russa. La lezione di Istanbul è molto chiara. Putin, che viene dalla navigata scuola del Kgb, non fa mai nulla per caso (a differenza del grande improvvisatore Trump) e già dalla composizione della delegazione russa ha lanciato un messaggio: un copia-incolla della formazione del negoziato del 2022, che naufragò proprio a Istanbul. Stessa “location”, stessa delegazione (anche se i ruoli di alcuni suoi membri sono nel frattempo cambiati) e stessa agenda. La tattica di Putin — che da Pasqua in poi continua ad alternare proposte di tregua e di disponibilità al negoziato e bombardamenti sulle maggiori città ucraine — è di continuare la guerra fingendo di cercare la pace. Zelensky lo ha capito e sta usando contromosse per smascherare Putin e mostrare a tutti chi vuole davvero la pace. Ma, affinché si arrivi a risultati concreti, anche Trump deve capire a quale gioco gioca Putin.
Mario Ajello, Il Messaggero
Sul Messaggero Mario Ajello commenta l’assegnazione a Napoli della Coppa America nel 2027. Un’occasione per il Sud e in generale per il nostro Paese – osserva – di progresso infrastrutturale (moli, officine, alberghi), turistico, occupazionale, economico e anche politico. Perché i grandi eventi, se ben concepiti, ben praticati e gestiti con equilibrio innovativo tra accoglienza e efficienza, accrescono lo standing internazionale delle nostre città e del nostro Sistema Paese e quindi la competitività dell’Italia e la sua capacità di influire sulle scelte mondiali che dipendono dalla forza dei singoli Stati in rapporto con i vari partner e concorrenti. C’è una potenza che si chiama soft power e che è appunto quella apparentemente non hard e fatta di sapienza, vocazione culturale, relazionale, diplomatica, di organizzazione di fenomeni anche sportivi (ah, avere rinunciato alla possibilità di Olimpiadi a Roma!). Questo tipo di potere, incentrato sulla persuasione e diverso dall’aspetto militare e dalla forza classica, ha tutte le armi per rivelarsi determinante nel mondo contemporaneo. Nel senso che chi sa meglio essere attrattivo nel settore dello scambio culturale, dell’identità storico-artistica, della bellezza, dell’attivazione di curiosità e dell’ospitalità di persone del mondo che girano, vedono, partecipano, spendono e ricordano (sarà un’indimenticabile esperienza vedere le barche dei campionissimi della vela nel Golfo di Napoli) può rivaleggiare con chi ha gli eserciti e i cannoni. Il mondo di pace non solo ha bisogno dello sport, che è un vincolo di civiltà, ma ha in generale la necessita di occasioni di scambio e di mescolanza. Questo sono i grandi eventi. Un doping della cultura dell’incontro e un volano di crescita da tutti i punti di vista. L’Italia in questo è all’avanguardia, tra il Giubileo in corso e quello del bimillenario della nascita di Cristo, nel 2033. In mezzo, tanti altri appuntamenti, come le Olimpiadi invernali Milano-Cortina il prossimo anno e che peccato che l’Expo 2030 non se la sia aggiudicata Roma che pure, come sta dimostrando in queste settimane, ha un talento nel governare i grandi flussi e i grandi appuntamenti che poche altre metropoli al mondo - non si è città universale per sbaglio - riescono a vantare.
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