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Redazione InPiù 14/05/2025

“Mentre il Medio Oriente è in ebollizione, dalla Palestina alla Siria, passando per la minaccia houthi nel Mar Rosso e per la tentazione di Israele di colpire gli impianti nucleari dell’Iran, Donald Trump dedica il primo viaggio del suo secondo mandato a tre Paesi del Golfo in un’ottica soprattutto di business. E lo rivendica”. Lo scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera: “Dobbiamo rassegnarci, dalle miniere ucraine al Medio Oriente, a una politica estera trasformata in diplomazia commerciale? Si può restare attoniti davanti alla disarmante naturalezza con la quale Donald Trump mette gli affari davanti a tutto, ma, prima di condannare, meglio analizzare e distinguere tra le operazioni commerciali che hanno anche un risvolto politico e affari invece concepiti nell’unico interesse personale di Trump e della sua famiglia. Insomma, entro certi limiti anche una diplomazia basata su fattori commerciali può avere una sua rilevanza politica. E, comunque – aggiunge - i governi hanno sempre usato le relazioni internazionali anche a questi fini. Ma Trump non sta semplicemente sostituendo la globalizzazione col suo neomercantilismo. Fa affari giganteschi per sé stesso e per la sua famiglia con le Trump Tower che sorgeranno nel Golfo, hotel e golf resort e, soprattutto, con le criptovalute: le considerava truffaldine e una minaccia per il dollaro ma, fulminato insieme ai figli sulla via dei cryptoguru della Silicon Valley, Fondi e affari che vanno ad arricchire i Trump in apparente contrasto con la Costituzione che vieta al presidente di ricevere emolumenti dall’estero. Al di là delle questioni etiche, comunque di grande rilevanza, queste azioni e tutte le altre iniziative di Trump che indeboliscono il rule of law, così come i dazi messi e tolti con logiche da partita a poker e con intenti punitivi, finiscono per minare la credibilità degli Stati Uniti come partner politico e militare e anche come rifugio sicuro per il risparmio mondiale. Fin qui la forza del dollaro si è basata, oltre che sulle baionette, sulle garanzie legali e su un mercato libero e mercato aperto, senza limiti o rischi di penalizzazioni o confische da regime autocratico. Con la mancanza di certezze Trump rischia di bloccare gli investitori. Col suo autoritarismo – conclude l’editorialista - può minare il dollaro e l’appetibilità dei titoli del Tesoro rendendo assai più oneroso il finanziamento del debito pubblico americano”.
Tito Boeri, la Repubblica
Tito Boeri su Repubblica parla del referendum dell’8-9 giugno e di “quesiti mal posti che paradossalmente comportano cambiamenti opposti a quelli che hanno in mente i proponenti. Partiamo dal quesito, il quinto, che riguarda la legge sulla cittadinanza. Si propone – scrive Boeri - l’abrogazione del requisito di dieci anni di residenza, riportandolo a cinque anni, come previsto dalla legge in vigore fino al 1992 e in linea con la maggioranza dei paesi europei. Quel che conta è che c’è un premio alla naturalizzazione di cui beneficiamo noi tutti, come contribuenti, come attuali o futuri pensionati o anche semplicemente come concittadini soprattutto nelle aree ad alta densità di immigrati. Non si vede perché dovremmo rinunciare a questo premio spingendo verso altri paesi persone che potrebbero aiutarci a riempire le migliaia di posti vacanti che le imprese non riescono a riempire dato il calo demografico. Questo ci porta ai primi tre quesiti del referendum, sui licenziamenti e sulla reintroduzione di limiti burocratici (il cosiddetto causalone) nell’utilizzo dei contratti a tempo determinato. La quota di contratti a tempo determinato è scesa dal 17% al 13% negli ultimi tre anni, nonostante tipicamente aumenti fuori dalle recessioni: aumentarne i costi burocratici rischia di essere a detrimento della creazione di lavoro stabile. I licenziamenti in rapporto all’occupazione a tempo indeterminato sono in forte calo (diminuiti di più del 25% dall’entrata in vigore delle norme che si vorrebbe abrogare). La cosa sorprendente è che tutto questo non si sia tradotto in un aumento dei salari e in un miglioramento delle condizioni di lavoro. La nuova frontiera del precariato oggi è nella povertà fra chi lavora anche a tempo indeterminato a orari ridotti e con salari che negli ultimi 4 anni, a differenza che in altri paesi, non hanno saputo tenere il passo dell’inflazione e hanno perso quasi il 10% del loro potere d’acquisto. C’è poi il quesito sugli infortuni, altro problema prioritario. Il referendum lo affronta introducendo una norma che non ha precedenti nel mondo: l’impresa committente che appalta un lavoro a un’altra azienda è corresponsabile di incidenti che quest’ultima può causare in lavorazioni che nulla hanno a che vedere con l’appalto e su cui l’azienda committente non ha alcuna competenza e conoscenza del grado di rischio. La lezione che abbiamo imparato in questi anni è – conclude - che per contrastare la piaga degli incidenti sul lavoro non serve rendere le leggi più feroci di quanto non siano già”.
Alessandro De Angelis, La Stampa
“Per carità: alcune battute sono anche riuscite, all’interno del cosiddetto ‘premier time’ alla Camera”. Così Alessandro De Angelis sulla Stampa parlando di ‘eterno teatrino della politica italiana’: “E così via, ognuno che, nel domanda-risposta, va sul sicuro, batte sui temi più consoni alla sua curva, ed è sempre all’opposizione: il governo è all’opposizione dell’opposizione, l’opposizione è all’opposizione del governo e anche del suo passato. Casca il mondo – scrive l’editorialista - ma il format è eternamente uguale a sé stesso. Oggettivamente il confronto con l’altra istantanea di giornata è impietoso. Qui, a Roma, l’ordinario teatrino. Lì, in Portogallo, il ‘nessun dorma’, di Mario Draghi e Sergio Mattarella. Due discorsi, in perfetta sintonia, l’uno più focalizzato sugli elementi di rottura sul terreno economico, con la sfida dei dazi, l’altro più sugli elementi di rottura sul terreno della difesa. Insomma, entrambi sono animati dal medesimo assillo, si misurano con la storia e con la straordinarietà di questi tempi. E tuttavia, sia pur all’interno di un gap tra propaganda e realtà, c’è chi tutto sommato tiene e chi ha dei macroscopici nodi irrisolti, proprio nel momento in cui la politica ha ingranato la marcia elettorale, tra turno amministrativo, referendum, prossime regionali in autunno. Giorgia Meloni non è protagonista, pare in perenne ‘smart working’, nel senso che ai vertici internazionali si collega, nell’ossessione di turbare Trump e nell’ossessione dello scavalcamento a destra di Salvini, e tuttavia sia pur a bassa intensità resta ‘allineata’ all’Europa tanto su Kiev, quanto sul tema della difesa. Anche il riottoso Matteo Salvini abbaia, ma non morde. Dall’altro lato invece Giuseppe Conte morde e non è un caso che non c’è una sola occasione in cui Elly Schlein faccia un discorso compiuto sulla politica estera e sulla difesa, dove la pensa come Conte ma non può dirlo. Sul principale terreno su cui si gioca non la competizione elettorale (si sa, questi temi sono impopolari) ma l’interesse nazionale c’è, nel centrosinistra, un mai risolto disallineamento rispetto all’Europa. Tanto per capirci. Se domani mattina il centrosinistra vincesse le elezioni – conclude - Elly Schlein, nel momento dell’incarico, non sarebbe in grado garantire a Mattarella la politica estera (e di difesa) che il capo dello Stato sollecita. Giorgia Meloni questo problema, che non è un dettaglio, non ce l’ha”.
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