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Redazione InPiù 12/05/2025

Quaranta giorni fa, Donald Trump annunciava il maggiore aumento dei dazi degli Stati Uniti da oltre un secolo. Dopo le prime ritorsioni da parte di Pechino, nel giro di qualche giorno le tariffe doganali americane sulla Cina erano salite fino al 145% e quelle cinesi sugli Stati Uniti al 125%: potenzialmente un embargo pressoché totale fra i due Paesi che, messi insieme, valgono da soli quasi metà del prodotto interno lordo del mondo. La reazione è stata simile a quella che investì il pianeta all’inizio della pandemia. Il crollo delle Borse nel giro dei cinque giorni seguenti ha mandato in fumo quindicimila miliardi di dollari. La distruzione di valore sui mercati è stata così vasta e fulminea da sollevare interrogativi che sembravano impensabili fino a poco tempo prima: gli Stati Uniti sono diretti verso una recessione? Quanto è sicuro il debito pubblico americano? Quanto è solido il dominio del dollaro sul sistema finanziario internazionale? Quaranta giorni più tardi, per certi aspetti, tutto questo sembra essere stato solo un brutto sogno. O magari un tentativo rivoluzionario fallito di fronte alla resistenza imperturbabile della realtà. Alle chiusure di venerdì scorso il principale indice di Wall Street era tornato ai livelli del 2 aprile, quando il terremoto dei dazi di Trump stava entrando nella fase acuta con il «Liberation Day». Gli indici mondiali e quelli europei viaggiano persino sopra. E naturalmente a determinare il recupero è stato Trump in persona, segnalando in tutti i modi che è alla ricerca di una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si è cacciato. Arriva un punto nel quale persino l’uomo più potente al mondo, alla guida della massima superpotenza, deve cedere alla forza dei mercati e alle minacce di una recessione imminente. Ma a ben vedere c’è qualcosa di più, nella fretta di fare una parziale marcia indietro sui dazi. Perché la Borsa di Wall Street è tornata dov’era il 2 aprile, ma il dollaro e il costo del debito americano no: il dollaro è caduto dopo il «Liberation Day» e da allora è rimasto dov’era; il costo del debito è aumentato e da allora non è più tornato ai livelli di prima. Sono segnali di malessere da prendere sul serio.
Concita De Gregorio
Su Repubblica Concita De Gregorio si occupa dell’egemonia culturale secondo la destra, sostenendo che la destra abbia al riguardo un complesso di inferiorità che crede di risolvere, di risarcire additando la sinistra come vittima di uno speculare e opposto complesso: la superiorità. Ma non è una questione di postura. Parlano i fatti. L’egemonia culturale si realizza convincendo, non per censura e per decreto. È l’adesione delle moltitudini a una proposta che convince e genera consenso. La Rai, per esempio. Ha la destra un progetto di informazione e spettacolo in grado di generare egemonia? Al momento non sembra, anzi: la nuova programmazione è un’ecatombe. I numeri non sono amici del governo, diciamo. Ma certo: i numeri non sono tutto. C’è una proposta di pensiero alternativa? Mah. Il sistema cinema, il sistema teatro, il sistema scuola sono allo sbando. Definanziati, scientemente. L’ultima delle priorità, anzi: il primo nemico. Persino Pupi Avati, che brutta sorpresa per Borgonzoni Mollicone e Durigon, glielo ha detto in faccia. State asfissiando le piccole produzioni, uccidendo in culla l’arte e la cultura. Borgonzoni, Mollicone, Durigon. È questa la classe dirigente culturale, si vede che di meglio non era sottomano. Ci sono persone anche colte, nella destra italiana di governo. Rare, ci sono. Persone che hanno studiato su testi di autori criptici e raffinatissimi, hanno frequentato le biblioteche vaticane per addentrarsi nella fascinazione impervia delle filosofie comparate, che parlano l’arabo e non disdegnano il sanscrito. Anche loro a tredici anni hanno senz’altro letto il Signore degli Anelli ma poi, a differenza dei colleghi di compagine, hanno proseguito nello sforzo. Potreste, diversamente orientati colleghi di fatiche, concorrere alla comune causa della democrazia e del sapere? Perché altrimenti toccherà di nuovo alla sinistra da sola, e non sarebbe bella questa nuova esibizione di supremazia culturale.
Alessandro Sallusti, Il Giornale
Quello che per le sinistre sarebbe il pericolo mondiale numero uno, Donald Trump, scrive sul Giornale Alessandro Sallusti, nelle ultime 48 ore ha bloccato sul nascere l’ennesima guerra tra India e Pakistan, convinto gli arcinemici Putin e Zelensky a sedersi allo stesso tavolo (giovedì in Turchia, a meno di ripensamenti dello Zar) per iniziare una vera trattativa di pace, fatto capire di essere pronto a riconoscere uno Stato di Palestina e, come se non bastasse, ha persuaso la Cina, con la minaccia dei dazi, a rivedere la sua spregiudicata politica commerciale. Se ci aggiungiamo che, tramite lo Spirito Santo, l’America ha portato a casa pure il suo primo Papa, beh il curriculum del presidente assomiglia più a quello di un premio Nobel che a quello di un dittatore fuori di testa e fuori controllo. Ma, Trump a parte, un incontro fra Putin e Zelensky premierebbe anche chi in Europa, a partire dal nostro governo, ha sostenuto con coraggio l’Ucraina, convinto che solo una situazione di stallo militare sul campo avrebbe potuto portare a una trattativa per una pace giusta e non punitiva. È presto per dirlo, ma se i due leader confermeranno l’incontro, significa che già esiste almeno una bozza di accordo percorribile per entrambi e che tale soluzione è accettabile anche da chi, con notevoli sforzi economici, ha partecipato indirettamente al conflitto e non vuole darla vinta al dittatore russo. Viceversa, chi ha sempre pontificato che l’Ucraina avrebbe dovuto issare da subito bandiera bianca e l’Occidente ritirarsi dalla scena con la coda tra le gambe - i vari professori, politici e opinionisti filo Putin mascherati da pacifisti -, resta fuori dai giochi e bene farebbe a uscire di scena per manifesta partigianeria e incompetenza. Perché, comunque andrà a finire, la Russia non conquisterà l’Ucraina, tratterà col nemico come deve fare chiunque non possa vantare una vittoria. La linea della fermezza contro i tiranni e in difesa delle libertà occidentali ha già pagato, il resto è nelle mani del popolo ucraino che deciderà se, quante e quali concessioni fare all’invasore.
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