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Due lezioni americane per l'Europa

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 05/05/2025

Due lezioni americane per l'Europa Due lezioni americane per l'Europa Francesco Giavazzi, Corriere della Sera
Sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi indica due lezioni che l’Europa può apprendere dagli Stati Uniti. La prima riguarda lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Per mantenere l’egemonia in questo ambito, gli Usa dovranno riuscire a non farsi superare dai cinesi. Ma la ricerca sull’intelligenza artificiale è fondamentalmente diversa rispetto agli sviluppi tecnologici precedenti: i risultati sono ottenuti da imprese private, lo Stato c’entra poco. E gli imprenditori interessati non vogliono interferenze e vincoli da parte dello Stato. Nel settore dell’intelligenza artificiale, l’Europa ha scelto una strada opposta rispetto alle richieste degli imprenditori della Silicon Valley. Un anno fa, ricorda Giavazzi, è entrato in vigore il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, uno dei primi tentativi al mondo di limitare il rischio che l’Ai causi danni o limiti i diritti dei cittadini.  L’obiettivo è sicuramente condivisibile e la legge europea è una buona legge. È però necessario, come nel caso di alcune norme sulla privacy, che sia usata con buon senso per evitare che il risultato sia: tutto è vietato o tutto è ammesso, in blocco. In caso contrario, il rischio è che queste norme vengano poi cancellate perché paralizzanti (come sta accadendo ad alcune norme sulla transizione verde). Lo Stato non è un ostacolo: il passaggio critico sta nell’uso intelligente e lungimirante delle norme. C’è una seconda lezione da ciò che sta accadendo in America e riguarda la ricerca scientifica. È drammatico, e paradossale, che proprio nel Paese che ha mantenuto una posizione egemone grazie al progresso scientifico vi sia oggi un governo che limita la libertà di ricerca, ad esempio in medicina. Decideranno i cittadini americani se e come fermare Trump. L’Europa, invece, ha davanti a sé una grande opportunità. Investire nella ricerca e attrarre nelle proprie università e nei propri laboratori tanti che stanno pensando di lasciare gli Stati Uniti. Non c’è molto tempo.
 
Paolo Gentiloni, la Repubblica
Il nuovo governo tedesco che domani avrà la fiducia del Bundestag – commenta Paolo Gentiloni su Repubblica – è destinato a cambiare molte cose. Innanzitutto in Germania, dove con un massiccio piano di investimenti pubblici da 100 miliardi l’anno il governo cercherà di rilanciare le sorti di un modello economico in profonda crisi. Ma ancor più in Europa e in politica estera. È qui che, in tempi di tumultuosi cambiamenti, la leadership del cancelliere Merz va osservata da vicino perché potrebbe esercitare un ruolo chiave, magari in sintonia con Ursula von der Leyen. L’accordo di governo tra Cdu-Csu e Spd non può più definirsi una Grosse Koalition. Un tempo quei partiti rappresentavano i due terzi del Parlamento, oggi sono riusciti a fare una maggioranza per un soffio. Ma sono partiti a razzo, modificando il freno “costituzionale” al debito, addirittura con i due terzi del Parlamento della precedente legislatura, riunito nella sua ultima seduta. L’intesa sul programma è stata poi raggiunta piuttosto rapidamente. L’Spd, indebolita dal modesto risultato elettorale, ha accettato una linea dura sull’immigrazione, ottenendo in cambio solide posizioni ministeriali e, in prospettiva, l’incremento del salario minimo fino a 15 euro. Sullo sfondo, dopo una improvvida apertura di Merz in campagna elettorale, c’è l’impegno comune ad arginare l’Afd, una destra estremista secondo la definizione ormai ufficiale dell’intelligence tedesca. La capacità di mettere un argine all’Afd andrà dimostrata nei fatti, ma la svolta di una Germania che investe su infrastrutture, difesa, innovazione e transizione verde non è comunque trascurabile e avrà un impatto europeo. Sarebbe tuttavia un errore attendersi risultati immediati. La congiuntura tedesca resta infatti tutt’altro che favorevole, con previsioni di crescita zero per quest’anno. E i problemi maturati nell’ultimo ventennio e diventati evidenti dopo il Covid non spariranno in pochi mesi.
 
Giovanni Orsina, Il Giornale
Ci lamentiamo da anni della politica contemporanea perché non sa guardare lontano. Ma poi – osserva sul Giornale Giovanni Orsina – spunta un presidente americano, quintessenza del populismo se mai ce n’è stata una, che imposta la propria politica commerciale sulla base di un obiettivo di lungo periodo: riportare negli Stati Uniti la produzione manifatturiera. Sul versante opposto, quelli che hanno sempre attaccato il populismo per la sua miopia si compiacciono assai perché i dati economici americani dell’ultimo trimestre e la volatilità delle Borse stanno facendo naufragare il progetto trumpiano. Ossia, sperano che il brevissimo periodo prevalga su un disegno politico di prospettiva. Ma è ovvio, mi si risponderà: certo che la politica deve tornare a guardare al lungo periodo, ma deve farlo come si deve. Mentre il disegno trumpiano è sì presbite, ma è pure sbagliato. Ed è bene che fallisca, allora. L’obiezione è fondata, e infatti qui non voglio difendere la politica commerciale di Trump. M’interessa solo mettere tre piccole pulci nell’orecchio di chi legge. La prima, che negli ultimi dieci anni ogni responsabilità per la crisi della politica è stata attribuita ai partiti populisti. Ma oggi il re dei populisti globali sta cercando, seppur malamente, di ripristinare la capacità della politica di controllare la storia. Ed è possibile, allora, che le cose siano un po’ più complicate di come ci sono state presentate. La seconda pulce ci racconta che, se i mercati dovessero infine sconfiggere Trump, ciò dimostrerebbe sì fragilità e improvvisazione della sua strategia commerciale, ma darebbe pure il segnale più generale che la politica resta subordinata all’economia.  La terza pulce chiosa quel che ci ha appena detto la seconda, e aggiunge che la sindrome del respiro corto non affligge soltanto la politica, ma pure il dibattito intellettuale. Che non solo nel nostro Paese e non solo a sinistra è ogni giorno che passa più miope e fazioso. E sì, certo, con le sue iniziative Trump agita per aria un dito grosso, pacchiano e vistoso. È difficile non guardarlo e non parlarne. Ma resta pur sempre un dito, e quella che sta indicando – le cause sottostanti del trumpismo – è la luna di un profondo mutamento storico. Non sarebbe male dare un’occhiata pure a quella, ogni tanto.
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