Mustafa: “Hamas deponga le armi, l'unica soluzione sono i due Stati”
Mohammed Mustafa – intervistato da
Francesca Caferri su
la Repubblica di martedì 29 aprile – non ama i giornalisti. Nel suo anno da primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese - alla testa di un governo “tecnico”, chiamato a gestire la gravissima crisi politica ed economica degli ultimi mesi - le interviste che ha concesso ai media internazionali si contano sulle dita di una mano. Fa un’eccezione per Repubblica e l’Osservatore romano in occasione della visita a Roma per i funerali di papa Francesco. Dal lascito di un Pontefice che non solo i cristiani, ma i palestinesi tutti hanno sentito molto vicino, inizia questa conversazione. Signor primo ministro, cosa porta con sé della figura di questo Papa? «Papa Francesco ha fatto una grande differenza nella maniera in cui noi palestinesi siamo visti: non solo in Vaticano, ma nel mondo. Negli ultimi anni il movimento per il riconoscimento dello Stato palestinese ha avuto a livello globale una grossa spinta. Su questo credo che il fatto che il nostro Stato sia riconosciuto dal Vaticano (la decisione fu presa da Francesco nel 2015, ndr) abbia avuto un importante impatto. Per questo, per il supporto che ha sempre dato alla pace e per aver riconosciuto sin dal primo momento la sofferenza di Gaza, gli saremo sempre grati. Credo e spero che quanto ha fatto non si fermerà alla sua persona: papa Francesco ha costruito un ecosistema di supporto alla Palestina, un’eredità che mi auguro che il suo successore, chiunque sia, porterà avanti». Il Papa chiedeva pace: ma per fare la pace bisogna essere in due. Le vostre relazioni con Israele sono a un minimo storico… «Per il futuro della nostra regione non c’è altra strada se non il dialogo e la coesistenza. Alla fine anche il governo israeliano si dovrà arrendere a questa evidenza. Non credo che Israele sia più sicuro oggi dopo 19 mesi di guerra, con uno degli eserciti più forti del mondo che combatte contro una milizia e che ancora non può dire di aver vinto. Non credo neanche che oggi Israele abbia più amici di prima nel mondo. Questi mesi dimostrano che la guerra non è la soluzione. La soluzione sono i diritti, la pace, la riconciliazione: noi continuiamo a sperare che questo si possa raggiungere. Lo speriamo anche di fronte alle violenze quotidiane dei coloni, a quello che accade a Gaza e alle scelte folli del governo Netanyahu. Come diceva il Papa, la speranza non delude mai». Il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha espresso nei giorni scorsi la più dura condanna di Hamas dall’inizio della guerra: li ha chiamati “figli di un cane”. Come sono i rapporti fra il suo governo e Hamas? «I nostri problemi con Hamas non sono iniziati il 7 ottobre 2023: Hamas ha preso il controllo di Gaza dal 2007 e questo ha avuto un impatto notevole sulle vite di tutti i palestinesi. Il 7 ottobre ha chiaramente modificato lo scenario, ma credo che ora sia chiaro a tutti che la soluzione verrà solo quando Gaza sarà riunita con il resto della Palestina. Deve esserci un unico Stato, un’unica legge, e un’unica autorità che controlla le armi. È questa la realtà che dobbiamo costruire per aiutare Gaza a ripartire: sarà difficile, serviranno i soldi e il supporto della comunità internazionale. Ma stiamo già lavorando». Come? Hamas non scomparirà, siete pronti a lavorare con loro? «Ci sono diversi livelli quando parliamo di Hamas. Come ha detto il presidente Abbas, Hamas come partito politico è benvenuto nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) se accetta i principi a cui i suoi membri aderiscono: e dunque l’idea che la pace debba essere raggiunta senza violenza e senza armi in base alla soluzione dei due Stati. Per quanto riguarda il governo: l’esecutivo che io guido è un “governo tecnico”, non ci sono rappresentanti di partito né possono esserci. Questo vale per Hamas così come per Fatah. Infine le armi: è chiaro che non possono esserci armi in Palestina che non siano quelle che rispondono all’autorità centrale». In un’intervista all’Osservatore romano qualche mese fa il presidente Abbas espresse fiducia in Donald Trump. Da allora molte cose sono cambiate: avete ancora fiducia nella mediazione americana? «La posizione del presidente Trump sul Medio Oriente è chiara e il suo ruolo sulla scena internazionale è forte. Noi capiamo che in questo momento si sta occupano di molte cose: penso all’Ucraina e all’Iran. Ma io credo che quando verrà il momento, saprà indicare un accordo improntato a pace e giustizia. Senza la fine della guerra a Gaza non si potrà parlare del resto: è urgente che finisca la guerra. A metà maggio Trump sarà in Arabia Saudita, a giugno ci sarà una conferenza a New York promossa dall’ Arabia Saudita e dalla Francia: speriamo che si arrivi a risultati concreti». Il suo governo deve affrontare anche una grossa crisi in Cisgiordania. Ovunque si vada, da Ramallah a Hebron, a Jenin, la gente lamenta mancanza di stipendi, di lavoro, di assistenza. Le giro la domanda degli abitanti di Masafer Yatta, la zona vicina a Hebron, quella più colpita dall’avanzata dei coloni, diventata famosa grazie all’Oscar al film “No Other Land”. Chiedono: dov’è il nostro governo?. «Masafer Yatta è il primo posto dove sono andato non appena eletto: due ore dopo che sono andato via sono arrivati i coloni. Hanno ragione gli abitanti di quel villaggio a essere furiosi, e ha ragione a esserlo anche la gente di città come Jenin e di Tulkarem: noi stiamo facendo il meglio che possiamo. Alla gente di Masafer Yatta rispondo che il governo lavora perché le loro case fra un anno siano ancora lì».