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Redazione InPiù 14/04/2025

Sul Corriere della Sera Paolo Lepri si occupa del negoziato sul nucleare con Teheran, sottolineando come Iran e Stati Uniti siano tornati a parlarsi, sia pure attraverso la mediazione del ministro degli Esteri dell’Oman. È quasi scontato sottolineare che questo dialogo, appena iniziato, può essere un elemento determinante di un futuro diverso, almeno (ma non solo) nella polveriera medio-orientale. Condizione essenziale, convincere l’ayatollah Khamenei a compiere alcuni importanti passi indietro, ammettendo anche la debolezza oggettiva di un regime pericoloso che ha subito recentemente molte sconfitte. Le due parti non sono andate finora molto oltre le posizioni di principio. Dalle stanze dei palazzi di Mascate è filtrato intanto che il punto di partenza in questa fase iniziale ha riguardato in generale l’attenuazione delle tensioni regionali, lo scambio di prigionieri, l’alleggerimento delle sanzioni in cambio di un controllo sulla minaccia rappresentata dal programma nucleare di Teheran. E proprio su questo ultimo terreno che le difficoltà sono enormi, come sanno i protagonisti (tra cui l’Unione europea, ricordiamolo) di quell’accordo del 2015 che fu «The Donald» a gettare poi nel cestino riducendone l’efficacia. Meglio non pensare a cosa potrebbe accadere se Trump dovesse tirare le conseguenze di un categorico no dei nuovi interlocutori alle aspettative americane in un’area dove la pressione militare è già significativamente salita di grado, come dimostra l’invio dei bombardieri B-2 nella base militare dell’isola di Diego Garcia. «Se i colloqui non avranno successo, l’Iran sarà in grave pericolo, e odio dirlo, perché non può avere un’arma nucleare», sono state le parole testuali del presidente americano. Con una certa dose di cinismo, che non manca mai nelle relazioni internazionali, è però forse possibile oggi pensare di approfittare, in un certo senso, del fatto che le mosse di Trump hanno sempre l’obiettivo di forzare lo status quo esistente. L’immobilismo calcolato, d’altra parte, è invece il maggior nemico di qualsiasi progresso.
Paolo Garimberti, la Repubblica
L’efferato attacco missilistico russo contro le famiglie che affollavano le vie di Sumy nella domenica delle Palme, una delle festività più sentite in Ucraina, commenta su Repubblica Paolo Garimberti, dimostra che Vladimir Putin non ha alcuna intenzione di rispettare la tregua proposta dalla Casa Bianca e accettata da Kiev, come ha ricordato ieri il ministro degli Esteri Andriy Sybiha. Ed è la riprova che lo zar, formatosi nel Kgb, continua a prendersi gioco del tycoon, diventato presidente, senza che questi dia segno di accorgersene. Ma la «vile e orribile» strage di Sumy, come l’ha definita Giorgia Meloni, sottolinea anche quanto prono, verso Putin, e dilettantesco sia l’atteggiamento dell’eterogenea squadra che Trump ha scelto per porre fine alla guerra «in ventiquattr’ore» secondo una promessa elettorale ormai ampiamente scaduta. Conferma, altresì, quanto al presidente americano poco importi della pace in Ucraina. E quanto, invece, gli interessi il rapporto bilaterale con la Russia, e personale con Putin. L’attacco missilistico a Sumy, così come quello di una settimana fa a Kryvyi Rih, città natale di Zelensky (anche lì ben nove bambini uccisi), ha una spietata forza simbolica. Perché la città, al confine nord-est dell’Ucraina con la Russia, è stata la base logistica per il blitz ucraino, dell’estate 2024, nella regione russa di Kursk, conquistata rapidamente e poi lentamente persa dall’esercito di Kiev. Destini incrociati in questa guerra territorialmente d’altri tempi, ma combattuta con gli armamenti più moderni. Perché Sumy, a sua volta, era stata parzialmente occupata dall’esercito di Mosca nei primi giorni dell’«operazione militare speciale» del 2022, e poi liberata dalle truppe ucraine. Ma la carneficina della Domenica delle Palme ha un altro significato simbolico. Perché avviene a meno di quarantott’ore dall’inchino di Steve Witkoff, l’uomo d’affari designato da Trump come negoziatore per l’Ucraina, a Putin a San Pietroburgo. Witkoff, prima di stringere intensamente le mani dello zar, aveva messo la propria destra sul cuore. Un segno di gratitudine per l’incontro, ma anche di sottomissione.
Gennaro Sangiuliano, Il Giornale
L’uomo più potente della terra – scrive sul Giornale Gennaro Sangiuliano – non è Donald Trump, né tantomeno Vladimir Putin ma è decisamente Xi Jinping. Il leader cinese, uomo dall’aspetto apparentemente conciliante, governa una nazione di oltre un miliardo e quattrocento milioni di cittadini, che non è solo una potenza demografica ma è diventata un gigante industriale e ora anche tecnologico. Mao Tse-tung ebbe un grande potere ma governava una nazione poverissima, in preda a continue carestie. Xi Jinping ha inserito il suo pensiero in costituzione e ha eliminato il limite dei due mandati che fu introdotto da Deng Xiaoping per evitare che si riproducesse un potere autocratico come con il maoismo. Oggi il «nuovo Mao» riassume nelle sue mani la triade del potere cinese: presidente della Repubblica Popolare Cinese, segretario generale del Partito Comunista Cinese, presidente della commissione militare che significa capo delle forze armate. La Cina aderì al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, nel 2001, in condizioni di assoluto privilegio, classificata come economia «non di mercato» che in quanto tale non era tenuta a rispettare le regole sugli aiuti di Stato. Da allora, grazie alle esportazioni, alla capacità di inondare il mondo di prodotti a basso costo, il Pil cinese è diventato quindici volte superiore. Grazie alla globalizzazione la Cina ha accumulato un costante attivo commerciale con gli Stati Uniti e con l’Europa. Da qualche anno Pechino non si accontenta di essere una potenza economica, lo vuole essere anche da un punto di vista politico militare. Pur in presenza di questo scenario, è impossibile non trattenere relazioni economiche con la Cina ma non è altrettanto rinviabile una ridefinizione dei rapporti imponendole di partecipare al mercato alle stesse condizioni degli altri. Per troppo tempo l’Occidente ha fatto finta di non vedere sacrificando i propri interessi. Ora che gli Stati Uniti hanno imposto dazi alla Cina, sia pur con una marcia indietro in alcuni settori tecnologici, l’Europa rischia di essere sommersa dalle merci cinesi. Sarebbe un errore se, per fare un dispetto a Trump, Bruxelles si consegnasse ad una dipendenza commerciale da Pechino ancora più marcata piuttosto che dotarsi di un’autonoma politica industriale.
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