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Tronchetti Provera: “Serve realismo siamo deboli e dobbiamo trattare”

Francesco Manacorda, la Repubblica, 8 aprile

Redazione InPiù 12/04/2025

Tronchetti Provera: “Serve realismo siamo deboli e dobbiamo trattare” Tronchetti Provera: “Serve realismo siamo deboli e dobbiamo trattare” «La relazione transatlantica è e deve rimanere prioritaria. L’Europa deve sedersi subito al tavolo con gli Usa – trovando una voce sola e non ventisette diverse – per trattare con Donald Trump. Se reagisse esclusivamente con ritorsioni, adottando contro dazi o misure simili, i singoli paesi sarebbero costretti a negoziare ciascuno per sé e non più nell’interesse comune». Lo afferma il vice presidente esecutivo, di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, intervistato da Francesco Manacorda per la Repubblica dell’8 aprile. E tra le sue certezze scolpisce quella sui rapporti tra Usa ed Europa: «Loro, insieme a noi europei, sono l’Occidente, Trump è stato democraticamente eletto ed è normale che voglia fare quello che ha detto in campagna elettorale». Non la scandalizza l’attacco a freddo al libero mercato? «Alcuni leader europei hanno il vizio di partire senza cercare di capire chi ha davanti e senza comprendere le risorse che può mettere davvero in campo. Oggi, purtroppo, l’Ue non ha alcun ruolo geopolitico e quindi non può far sì che quei valori europei che sono i migliori al mondo – dalla democrazia allo Stato sociale – vengano adottati anche da altri». Sta dicendo che l’Europa deve arrendersi a Trump? «No, ma che deve negoziare. E farlo seriamente. In America c’è un sistema semplice: ogni quattro anni si vota il presidente, che dopo due anni può diventare un’”anatra zoppa” se non ha più la maggioranza in Parlamento. Può accadere anche prima a fronte di turbolenze particolari. Si può essere in accordo o in disaccordo con Trump, che però è stato democraticamente eletto e deve portare risultati ai suoi cittadini; quindi ha bisogno di crescita senza inflazione e di raggiungere la pace». Ma si può trattare con chi aggredisce con i dazi? «Serve un approccio realistico. Il Messico era nel mirino dei dazi Usa per le richieste sull’immigrazione e il commercio dello stupefacente fentanyl. Appena si è prospettato il rischio dazi, la presidente ha mandato 10.000 uomini a rafforzare il controllo delle frontiere e ha fermato una nave con 60 milioni di dosi di fentanyl. Un atteggiamento negoziale che ha finora consentito al Messico di evitare la tassazione. Magari l’atteggiamento poi cambierà, ma questa è stata la prima reazione».
 
L’Europa, ‘purtroppo’ non produce fentanyl. Su cosa tratta? «Il nostro è il mercato più ricco che esista al mondo e quindi può trattare sul ribilanciamento di certe situazioni, ad esempio eliminando dazi su alcune categorie di merci. E la trattativa può avere anche esiti positivi, se si riesce a negoziare su certi settori, magari trovando più spazio per alcuni prodotti Usa in Europa e viceversa. Ma il vero problema è che l’Ue ha un commissario addetto al commercio, ma poi è il consiglio che decide. Ventisette paesi che non sono in grado di prendere una posizione comune sulla difesa e che adesso dovrebbero anche tagliare i legami con gli Usa? Non scherziamo». Che c’entra la difesa con i dazi? «C’entra molto, perché anche qui l’Europa sta provando dimostrare una forza che non ha. Bisogna essere realistici sulle forze in campo e l’Europa, che non ha muscoli, non può permettersi atteggiamenti muscolari». Non pensa che in questo nuovo quadro l’Europa sia obbligata ad avere una difesa comune? «Raccontare adesso agli europei che in quattro e quattr’otto si mette in piedi un esercito comune è un bluff. Gli 800 miliardi del progetto ReArm Europe non esistono: 650 sono incremento del debito dei Paesi e 150 un finanziamento europeo. Solo la Germania, con una modifica addirittura alla Costituzione, avrà i soldi per riarmarsi: 500 miliardi in dodici anni. E l’ultima volta che le è stato consentito di farlo sappiamo tutti come è andata a finire. C’è un’unica forza in grado di prendere in carico il compito della difesa comune, ed è la Nato. Una Nato con maggior impegno da parte dei paesi europei, ma sempre strettamente legata agli Usa. Tutto il resto è assolutamente irrealistico. E c’è addirittura chi propone di mandare i nostri figli in guerra, sul campo, in Ucraina. La posizione della premier Meloni, contraria, è giustissima». Ma lei si sente europeista? «Non con questa Europa. Da ragazzo ho raccolto firme ai banchetti per l’Europa unita e fino alla presidenza Delors ho condiviso l’azione comunitaria. Poi, tra un allargamento scriteriato e negli ultimi anni regole assolutamente folli come quelle sul Green Deal, non mi ritrovo nella costruzione che è stata fatta. Sono per un’Europa che ritrovi le sue origini, non per questa». Non pensa che i negoziati con Trump sarebbero più proficui se l’Ue minacciasse ad esempio di tassare le Big Tech Usa? «Ci spegnerebbero subito la luce. Tutti i nostri sistemi sono collegati ai cloud americani, se si eccettua Mistral che è una piccola iniziativa francese. Tutta la tecnologia degli armamenti è legata agli Usa. Se guardiamo la realtà, il negoziato è la cosa più naturale». Siete un’azienda quotata. Le Borse crollano. Non teme una recessione innescata dai dazi? «Sì, e proprio per questo bisogna trattare rapidamente. L’Ue ha processi lentissimi, non più adatti a un mondo dove domina la velocità. La governance Ue va cambiata». Pirelli lavora con gli Usa e negli Usa, evitando i dazi per la sua produzione locale. Ma poi lavora con la Cina e in Cina ed ha anche un socio cinese. Da che parte state in questo mondo che si spacca? «Dobbiamo stare con gli Usa, ma anche con la Cina, dove quest’anno compiamo vent’anni di presenza produttiva ricevendo apprezzamenti a tutti i livelli dell’amministrazione. Dobbiamo stare nel mondo, come abbiamo sempre fatto, per il bene di tutti gli stakeholder. Abbiamo un vantaggio perché ormai da decenni attiviamo una politica ‘local for local: la produzione che facciamo in Cina è prevalentemente per la Cina, quella che facciamo in Brasile principalmente per il Brasile, e così via. Da oltre un anno, e non per i dazi, stiamo trattando con gli Usa, dove già abbiamo una fabbrica, per aumentare la capacità produttiva».
 
Ma l’America non vuole perché il colosso di Stato cinese Sinochem, ha il 37% del vostro capitale. «Abbiamo trattato con l’Alabama e con la Virginia e il peso di Sinochem nell’azionariato, non li ha incentivati a offrirci le condizioni per investire al meglio da loro. Adesso stiamo trattando con la Georgia, dove già abbiamo il nostro stabilimento, e anche in questo caso vengono sollevate riserve». Con i cinesi siete al braccio di ferro. il 27 marzo avete rinviato il cda Pirelli di un mese per cercare una soluzione che riduca il peso di Sinochem. La troverete? «Stiamo lavorando in modo costruttivo: abbiamo proposto soluzioni market friendly. Troveremo un modo, nell’interesse di Pirelli, per adeguarci alle leggi americane. È un mercato troppo importante per non poter giocare ad armi pari con i nostri competitor».
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