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L'ex amico a Pechino

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 10/04/2025

In edicola In edicola Federico Rampini, Corriere della Sera
Federico Rampini sul Corriere della Sera analizza l’evoluzione dei rapporti Usa-Cina: “Siamo tornati alla casella di partenza – scrive l’editorialista -al Ground Zero delle guerre commerciali. Dagli anni Ottanta all’inizio del millennio fu l’establishment americano —due Bush, repubblicani, Clinton e Obama democratici; più il Gotha del capitalismo industriale e finanziario—a scommettere sulla Cina. La classe dirigente Usa volle integrare la Repubblica Popolare nella globalizzazione, prevedendo benefici immensi. Le delocalizzazioni industriali dall’America alla Cina ingrassarono i profitti di tanti capitalisti ma impoverirono pezzi portanti del tessuto sociale Usa, alimentando rivolte no-global di sinistra e di destra, fino al  trumpismo. Nel frattempo con l’ascesa al potere di Xi Jinping si era frantumata ogni illusione di liberalizzazione politica, la leadership comunista non nascondeva più le proprie ambizioni imperiali. A Washington già sul finire della presidenza Obama subentrava una valutazione più lucida e preoccupata della minaccia cinese. Nell’alternanza Trump Uno-Biden-Trump Due si  è consolidato un consenso bipartisan, cementato dalle tremende lezioni della pandemia: l’ascesa della Repubblica Popolare va quantomeno ostacolata e rallentata. Pechino – ricorda Rampini - si è preparata a questa resa dei conti. Ha costruito un’economia più autarchica, ha eretto difese contro le misure americane, ha studiato il modello Putin su come si resiste a un regime sanzionatorio. A differenza della Russia, la Repubblica Popolare ha un grosso mercato interno e punte di eccellenza in tutte le tecnologie avanzate. Come dimostrò nella pandemia, la Cina controlla componenti essenziali in moltissime filiere, per cui può mettere in difficoltà vari settori industriali americani o europei. In questa nuova fase dello scontro con Washington, Xi parla di convertire la crescita cinese alimentandola con i consumi interni (un’operazione simile a quella annunciata da Friedrich Merz in Germania). Ma ci vorrà tempo. Se Xi affronta questa prova con fiducia, le ragioni sono extra-economiche. Guardando anche a Putin, è convinto che i regimi autoritari abbiano più resistenza e tenacia delle democrazie, perché – conclude - possono infliggere disagi superiori alle proprie popolazioni”.
 
Massimo Adinolfi, la Repubblica
Massimo Adinolfi su Repubblica parla di inizio e fine democrazia in relazione al presidente Usa: “Trump: di che cosa è il nome? Porre la questione in questi termini significa scartare subito da qualunque considerazione riguardi solo l’individuo che porta quel nome: l’immobiliarista, il personaggio televisivo, il miliardario. Ma Trump – osserva l’editorialista - è forse il nome anche di qualcos’altro che si viene vistosamente consumando sotto i nostri occhi. Della dilapidazione di un capitale che non va semplicemente in fumo come i titoli in Borsa, perché non basterà un annuncio per ricostituirlo. Mettiamola come la metteva un vecchio filosofo del diritto italiano, Alessandro Passerin d’Entrèves, nelle sue più celebri lezioni. Lo Stato, diceva Passerin d’Entrèves, può essere inteso anzitutto come una forza e allora c’è poco da fare e pure da ragionare: conta solo la potenza effettiva, e il modo in cui essa si impone senza altra giustificazione che non sia appunto l’esercizio di quella forza. Ma lo Stato può essere tenuto in considerazione anche come un potere, cioè come una forza qualificata dal diritto il cui dominio può giustificarsi solo nei limiti della legge, della validità giuridica. Infine lo Stato si può presentare con un altro volto ancora: non con quello della forza e nemmeno con quello del potere, ma con il volto dell’autorità morale, di un’autorevolezza che non si fonda sulla forza e nemmeno sulla legge ma che anzi fornisce a essa un supplemento di decenza, legittimità e dignità. La prima è una grandezza puramente fisica, la seconda una grandezza politico-giuridica, l’ultima una grandezza morale. Della prima si ha semplicemente paura, alla seconda si porta doveroso rispetto, nella terza, alfine, ci si riconosce. Di che cosa, insomma, è il nome Trump? Di un possibile collasso delle istituzioni  democratiche dello Stato e della fine dei discorsi che ne dovrebbero considerare tutti i volti. Nessuno infatti è così ingenuo da pensare che la forza non conti, ma nessuno dovrebbe rassegnarsi a pensare che solo essa conti. Nessuno è così cinico dal rinunciare a qualunque sostanza etica, ma tutti sanno che va assorbita a piccole dosi, se non si vuole finire dalle parti dello Stato autoritario. E nessuno – conclude - può pensare di fare l’una cosa e l’altra senza compromettere lo spazio intermedio della legge che i moderni hanno inventato per garantire libertà e diritti individuali”.
 
Ettore Sequi, La Stampa
“AIcuni analisti americani paragonano la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina a un chicken game: due rivali in corsa verso lo scontro, ciascuno sperando che sia l'altro a frenare”. Lo scrive Ettore Sequi sulla Stampa osservando che “tra Cina e Stati Uniti non si gioca a una semplice schermaglia negoziale, ma la sfida tra due visioni inconciliabili dell'ordine mondiale. Trump vuole una vittoria netta: la moratoria concessa ai Paesi che non hanno risposto con controdazi è una tattica per placare i mercati, ma anche un messaggio strategico: chi isola la Cina sarà premiato. Il vero rivale ideologico e sistemico resta Pechino. Per la Cina, la sfida è esistenziale: mantenere un livello accettabile di sviluppo economico, per evitare tensioni sociali, difendere il proprio sistema industriale e il rango di potenza globale. Di fronte a tariffe superiori al 100%, Xi ha scelto la resistenza paziente. Egli confida nella vulnerabilità di Trump alle pressioni dei mercati finanziari e nel vantaggio offerto dal tempo. Ma è un calcolo che richiede una narrazione di forza da parte del partito comunista, e una tenuta interna assoluta. Trump, dal canto suo, crede che una pressione incessante unita a lusinghe verso il ‘grande amico Xi’ bastino a piegare Pechino. Ma – spiega l’editorialista - per la Cina gli interessi strategici sono ben più profondi, e Trump non è considerato un interlocutore affidabile. Emergono anche contraddizioni ideologiche profonde. Gli Stati Uniti, patria del libero mercato, abbracciano un protezionismo muscolare per tutelare il ‘lavoratore americano’; la Cina comunista diventa baluardo del multilateralismo e della stabilità commerciale. La blitzkrieg (guerra lampo) tariffaria di Trump cozza con un'industria globalizzata che non si piega a proclami. La Cina risponde con una guerra di posizione basata su resilienza, pazienza strategica e un apparato statale non soggetto a vincoli elettorali. In questo scontro, vincere non significa annientare l'avversario, ma sopravvivere senza cedere terreno decisivo. Il commercio è ormai divenuto un campo di battaglia geopolitico dove si ridisegnano le fondamenta dell'ordine globale. Il rischio – conclude - è che il prezzo di questa prova di forza sia insostenibile non solo per i due contendenti ma per un sistema internazionale sospeso tra interdipendenza e frammentazione”.
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