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I dazi e i calcoli sbagliati di Trump
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 10/04/2025

Sono durati meno di sette giorni – commenta sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi – i dazi reciproci che mercoledì scorso il presidente americano Donald Trump aveva annunciato per tutti quei Paesi che avevano con gli Stati Uniti un disavanzo commerciale. Per il momento sono stati sospesi per 90 giorni con la contemporanea istituzione di una tariffa simbolica del 10%. Quanto avrebbero potuto durare misure così pesanti e poco utili anche all’obiettivo principale di ridurre quel deficit commerciale? Martedì il presidente Trump aveva alzato i dazi sulle importazioni americane dalla Cina a un livello (104%) che gli Stati Uniti non avevano raggiunto neppure con il Smoot-Hawley act del 1930. La prima reazione cinese ai nuovi dazi di Trump era avvenuta ieri sui mercati finanziari. La Cina possiede quasi mille miliardi di titoli pubblici americani: martedì aveva rallentato i rinnovi dei titoli Usa in scadenza, quanto è bastato per aumentare, seppur di poco, il costo del debito pubblico americano. Un segnale, ma sufficiente per far capire che le ostilità fra Washington e Pechino erano cominciate. Dove avrebbe potuto portare questa guerra commerciale? «Soffriremo un pochino, ma poi staremo meglio», aveva detto Trump agli americani. Come tutti i populisti il presidente Usa fa fatica a calcolare gli effetti delle sue decisioni e delle probabili reazioni cinesi. Che cosa possiamo fare noi europei in questa situazione che sembra cambiare di giorno in giorno e dove, fino alla sospensione di ieri, sembra dominare il furore di Trump, e salvarci? Certamente non varare contro-dazi, aprendo una voragine nella quale potremmo solo affogare. Né lasciarci traviare dal desiderio di una foto alla Casa Bianca che dimostrerebbe solo la nostra debolezza. Ma ammettere i nostri errori e capire che dopo 80 anni in cui abbiamo usufruito gratis della protezione militare degli Stati Uniti, è venuto il momento di contribuire seriamente a pagare il costo della Nato. Dovremo infine aumentare la domanda interna, consumi e investimenti, europei. Come si appresta a fare la Germania.
Stefano Folli, la Repubblica
All’improvviso il colpo di scena. Prima le volgarità a proposito di quanti vanno a Washington a chiedere a lui, a Trump, di rivedere i criteri dei super dazi, poi la sospensione dell’intero pacchetto per novanta giorni. Detti e contraddetti – osserva Stefano Folli su Repubblica – che non semplificano il lavoro di Giorgia Meloni, attesa negli Stati Uniti tra una settimana. Tuttavia la situazione è abbastanza drammatica di per sé, non c’è bisogno di un supplemento di ironie. Comunque sia, la presidente del Consiglio sta per affrontare la missione più difficile da quando è nato l’esecutivo: sarebbe bene non esagerare con le aspettative e non perdere di vista la realtà. Non c’è una clausola di “nazione più favorita” da strappare alla benevolenza dell’amico americano. Intanto per la semplice ragione che l’amico d’oltreoceano è tale storicamente, certo, ma al momento s’incarna in un signore che persegue i suoi obiettivi con linguaggio inaccettabile e metodi discutibili, proiezione del suo disprezzo verso l’Europa. E poi perché la materia dei dazi, per i paesi dell’Unione, è regolata da un accordo che esclude trattative separate in grado di abbattere i dazi a favore di qualcuno e a danno degli altri. Se a Bruxelles c’è chi teme che la premier italiana “ ll rischio che il viaggio della premier fallisca è alto, nonostante lo spiraglio di ieri sera vada in America per frantumare il fronte europeo, inchinandosi al “re dei sovranisti”, probabilmente sbaglia. Seppure ce ne fosse l’intenzione, la convenienza politica lo impedirebbe. Un conto è sottolineare il legame tra Europa e Stati Uniti, per cui la comunità atlantica non sopporterebbe la frattura, tutt’altro conto è diventare lo strumento di una politica americana che l’Europa giudica sbagliata e pericolosa. Questo è lo stretto margine in cui si muove la premier italiana. Il rischio che il viaggio fallisca è alto, nonostante lo spiraglio di ieri sera. Se Trump ripetesse anche solo una parte delle espressioni usate in pubblico contro l’Europa, l’ospite italiana non avrebbe altra scelta se non replicare con asprezza. Di questo Giorgia Meloni è consapevole. Lei andrà alla Casa Bianca come capo del governo di Roma, ma anche come europea che si riconosce nell’Unione.
Veronica De Romanis, La Stampa
La crescita per l’anno in corso dovrebbe fermarsi allo 0,6%. Questa è la stima contenuta nel Documento di Finanza pubblica (Dfp), il testo che in base al Patto di Stabilità rivisto serve ad illustrare il quadro macroeconomico dei Paesi europei. Attenzione, però, sottolinea Veronica De Romanis sulla Stampa, il dato è tendenziale. Non incorpora, pertanto, l’effetto delle eventuali misure di politica economica. Tuttavia, rispetto alla stima elaborata a settembre nel Piano strutturale di Bilancio (Psb) (pari allo 0,9%), la revisione al ribasso è significativa. L’obiettivo del governo era quello di una crescita programmatica dell’1,2% stimolata - principalmente - dal taglio del cuneo fiscale e dalle misure di sostegno alle famiglie. Ad oggi, tale percentuale appare difficile da raggiungere. Vediamo il perché. Primo, il ruolo dell’incertezza. Il contesto attuale è - senza dubbio - uno dei più incerti degli ultimi anni. Secondo, l’impatto delle tariffe. Attualmente, quelle imposte sui prodotti europei ammontano al venti per cento. Per una economia esportatrice come la nostra, le conseguenze potrebbero essere potenzialmente molto rilevanti. Dipenderà dall’esito dei negoziati, se ci saranno. E, qui veniamo al terzo punto: le possibili contro misure. Trump ha dichiarato che è pronto ad una trattativa solo se sarà «a benefico degli americani». I motivi per cui gli europei dovrebbero accettare un esito a loro sfavorevole sono difficili da individuare. È quindi assai probabile che si risponda con altri dazi. A conti fatti, la crescita sarà ben distante da quella stimata solo a settembre. Allora, che fare? Il governo avrebbe in mente un piano di sostegno alle imprese, ma in una fase di cambiamento così radicale, ci si aspetterebbe un approccio diverso. Piuttosto che limitarsi a erogare risorse, sarebbero necessari interventi mirati a eliminare inefficienze, barriere e rendite di posizioni che per anni hanno frenato la nostra crescita. I dazi auto-imposti di cui discute in questi giorni sono proprio questi.
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