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La scelta populista
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 07/04/2025

“Una maggioranza di americani votarono per Donald Trump il 5 novembre perché lo consideravano più affidabile e più esperto di Kamala Harris su un terreno cruciale: l’economia”. Così Federico Rampini sul Corriere della Sera parlando di 'scelte populiste e incompetenza': “Oggi – scrive l’editorialista - osservano con sgomento i propri fondi pensione che perdono valore. Il crollo di Borsa associa Trump a un’immagine d’incompetenza. Al suo Inauguration Day il 20 gennaio aveva promesso un’Età dell’Oro. Dopo il Liberation Day, la giornata dei dazi del 2 aprile, è costretto a una goffa retromarcia: prima che arrivi l’Età Aurea c’è una «medicina» da ingoiare (la recessione?). Non riuscirà a convincere che era tutto calcolato. Non sarebbe credibile. Lui non aveva fatto una campagna churchilliana «lacrime e sangue però alla fine vinceremo». Aveva promesso, con i dazi, una guerra-lampo e tutti più ricchi subito. L’incompetente doveva essere Biden; ma sotto di lui Borse e dollaro stavano molto meglio. Non siamo ancora vicini ai cento giorni e già la luna di miele del 47esimo presidente si è schiantata. Nello spettacolo mostruoso di questa incompetenza c’è qualcosa di banale e prevedibile; c’è anche qualcosa di misterioso. Forse è vero quel che sostiene il Quotidiano del Popolo, l’organo del partito comunista cinese, secondo cui la leadership di Pechino non è sorpresa, aveva previsto tutto, e ha già pronta la sua strategia di sopravvivenza a Trump. Non possono dire altrettanto – sottolinea Rampini - i mercati finanziari più liquidi del pianeta, dove i grandi investitori muovono migliaia di miliardi al giorno: Wall Street e Londra, Tokyo e la stessa Hong Kong, tutti hanno reagito con il terror panico della sorpresa. No, non si aspettavano questi dazi, non così alti, non così punitivi, non così generalizzati. Eppure Trump iniziò a predicare il Vangelo dei dazi in un’intervista televisiva del 1987! E da allora non ha mai smesso. Al dunque, dovendo arbitrare tra i poteri forti del capitalismo che lo hanno appoggiato, e il populismo operaista, Trump per adesso ha fatto la sua scelta. Gettando la maschera si è rivelato—come J.D. Vance — più come un leader della «destra sociale». Può darsi che ci ripensi, l’uomo non è nuovo ai voltafaccia, e il suo narcisismo egomaniaco gli consente di mascherare le ritirate come delle vittorie (la pandemia offrì dei precedenti in questo senso). Il verdetto delle Borse – conclude - con il suo sinistro presagio di recessione, potrebbe farlo indietreggiare sull’orlo del baratro, finalmente”.
Stefano Folli, la Repubblica
Stefano Folli su Repubblica analizza quelli che definisce i ‘duelli per l’egemonia nelle due coalizioni’: “Nonostante le somiglianze tra la linea dei Cinque Stelle e la posizione della Lega – scrive - esistono anche delle differenze. Salvini alza il tono perché deve restituire vigore ai suoi seguaci dopo anni assai appannati. Ma nessuno crede seriamente che si prepari ad aprire la crisi di governo. Accadrebbe, questo è vero, se pretendesse davvero di sostituire al Viminale il prefetto Piantedosi. Ma ovviamente non accadrà. Il vicepremier ha messo sul tavolo il problema, ma non ha indicato una data. Un tema che di sicuro non appassiona granché gli italiani. Inoltre, come si è visto, c’è il tentativo di recuperare spazio sul piano internazionale, per quanto riguarda i contatti personali. Elon Musk adesso sembra più amico del Carroccio che della premier. Idem per Orbán, lo spagnolo Abascal e in fondo Marine Le Pen, quest’ultima da sempre più vicina a Salvini che a Giorgia Meloni. Il capo leghista ha giocato le sue carte e con questo ha spostato in modo definitivo il partito su posizioni di destra radicale (vedi anche l’abbraccio con Vannacci). Non potrà più tornare indietro, almeno per i prossimi tre-quattro anni, il che rende ancora più inverosimile uno scenario di crisi. L’accusa a Meloni di inerzia nella vicenda dei dazi americani – fa notare Folli - è l’unica che in questo momento è in grado di danneggiarla. Ne deriva che il viaggio in America — di gran lunga il più importante della legislatura — deve dare qualche risultato. Raffreddare il clima, forse ottenere qualche tariffa più favorevole: e non solo per l’Italia. Non tutti in Europa seguiranno con simpatia la trattativa. Lei dovrà dimostrare doti diplomatiche non comuni e al tempo stesso guardarsi le spalle. Impresa al limite del temerario. Quanto alla sinistra, il quadro è un po’ diverso. Non si può negare il successo in piazza di Giuseppe Conte e dei suoi. La politica estera atlantica, secondo la tradizione italiana, è stata stiracchiata e trasformata in una gragnola di colpi scagliati contro il “bellicismo” dell’Unione e del governo Meloni. Ma tutti, è inutile ripeterlo, hanno inteso che il vero obiettivo era il Pd. Se Salvini ha potuto solo intaccare l’egemonia di FdI sul centrodestra – conclude - Conte è quasi riuscito a imporre quella dei Cinque Stelle su una parte almeno dei democratici di Elly Schlein”.
Giorgio Barba Navaretti, La Stampa
“La gravità di quanto successo nel giardino della Casa Bianca la settimana scorsa non è solo l’impatto economico delle tariffe, senz’altro nefasto, ma le ragioni profondamente errate su cui si basa il loro aumento”. Lo scrive Giorgio Barba Navaretti sulla Stampa: “Errate – spiega - perché costruite su fatti non veri e perché fondate su un presunto criterio di equità, il principio di reciprocità, introdotto ad hoc e che rovescia le regole condivise su cui si è basata la prosperità degli ultimi ottant’anni. La falsità dei fatti è oramai ben nota. Trump parla di reciprocità. Alzo i dazi americani in modo da compensare tariffe e barriere che gli altri paesi impongono ai miei esportatori. E ho pure la bontà di dimezzarli. Ma il valore delle presunte gabelle imposte all’America e riportate nel famoso tabellone dell’altra sera hanno nulla a che vedere con le barriere commerciali nei mercati di destinazione. Sono invece la misura del deficit commerciale degli Usa verso quei mercati. Sostenere che questo è unicamente dovuto alle inique barriere imposte da altri e che le tariffe applicate sono quelle ritenute necessarie per eliminare lo squilibrio, come fa l’ufficio del Trade Representative, è falso e in più inefficace. Il saldo commerciale dipende anche dalla competitività relativa delle merci, dalla reperibilità delle materie prime, dal dollaro e dalla domanda aggregata dei partner commerciali. Altrettanto grave – aggiunge - è l’utilizzo improprio del temine reciprocità usato per giustificare l’aggressione verso gli altri paesi. Il principio fondante delle regole globali sul commercio è la non discriminazione nel mercato di destinazione, la clausola della Most Favoured Nation (MFN), a tutti le stesse condizioni della nazione più favorita. Se non ci sono accordi commerciali preferenziali, Europa, Australia, Vietnam o Giappone o qualunque paese pagano per ciascun prodotto lo stesso dazio negli Stati Uniti. Le stesse regole non richiedono invece reciprocità nel livello delle barriere. Ossia i dazi all’entrata negli Stati Uniti possono essere diversi da quelli dell’Europa o dell’Australia. Oggi la reciprocità trumpiana è il riflesso di un’America che ha perso il suo ruolo globale e che sovverte le regole – conclude - grazie a cui ha creato ricchezza e prosperità, che mina uno dei pilastri della nostra civiltà e del nostro benessere, uno spazio di libero scambio con regole condivise”.
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