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Trump, i dazi sull'auto e gli errori dell'Ue

Redazione InPiù 27/03/2025

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Mario Sechi, Libero
Mario Draghi fa sapere da Hong Kong che per l’Europa «il tempo è scaduto», ma in realtà la data di scadenza risale a non meno di venticinque anni fa, quando durante l’ascesa delle aziende hi-tech della Silicon Valley il Vecchio Continente smarrì la mappa dell’innovazione, quella che oggi guida la manifattura e i servizi, la difesa e la logistica, la finanza e lo spettacolo. Era il tempo in cui si cantilenava - con la stupidità di chi crede di saperla lunga - che «piccolo è bello», così la nostra industria è rimasta un parco di nani da giardino circondato da un universo di titani. L’Unione europea si è concentrata sulla costruzione di uno Stato etico e burocratico, un mostro di regolamenti, mentre la fabbrica del mondo si spostava da altre parti, con effetti che ora graffiano la pelle dei nostri figli. Donald Trump ha annunciato dazi al 25% su tutte le automobili non prodotte negli Stati Uniti e «tempus fugit», scorre così velocemente che ora si lanciano penultimatum mentre la partita si gioca altrove, in Asia e in America, nel subcontinente indiano e, in un domani che non è lontano, in Africa. L’establishment europeo è in preda a un parossismo accecante, la cosiddetta corsa al riarmo è una reazione che non è guidata da un pensiero razionale e l’iniziativa della Germania è dettata più dall’urgenza di rianimare la manifattura in crisi che da un’analisi strategica sui bisogni della Difesa. L’Europa è già marginale, proiettata in un cono d’ombra, è in pieno inverno demografico e crisi morale, prima ha smarrito Dio, poi si è dimenticata dell’uomo, è vecchia e nello stesso tempo prigioniera dell’infantilismo delle élite, lo è al punto da non vedere che la sfida americana è di lunga data. Nel 2016 Barack Obama in un’intervista sull’Atlantic definì gli alleati della Nato dei «free riders» (Treccani: «Chi usufruisce di un bene pubblico senza pagare alcun prezzo per esso»), perché pretendevano l’arrivo gratis del Settimo Cavalleggeri ogni volta che c’era bisogno. Non era Trump, era lo sfogo di Obama, nessuno si stracciò le vesti perché era un democratico, uno che faceva parte del club e dunque, «yes we can». Trump fa la sua politica e il suo «stop and go» sui dazi va preso sul serio, il quarantenne JD Vance scartavetra la verità sui muri della nostra incoscienza, mentre una commissaria europea, la signora Hadja Lahbib, apre la sua borsetta e mostra al popolo la grande soluzione europea, il «kit di sopravvivenza». Abbiamo quel che ci meritiamo.
 
Claudio Cerasa, Il Foglio
Chiamare le cose con il loro nome, in politica, scrive Claudio Cerasa sul Foglio, non è solo un esercizio di stile, o almeno non dovrebbe esserlo, ma è un modo concreto per dimostrare, anche a se stessi, di essere in grado di comprendere la realtà esattamente per quello che è. Senza infingimenti, senza anestetici, senza furbizie linguistiche. Chiamare le cose con il loro nome, in politica, significa avere chiara quale sia la realtà che ci circonda, ma significa anche scegliere di trattare gli elettori come degli adulti. E compiere una scelta veritativa, attorno all’uso corretto delle parole, significa anche voler mettere da parte l’idea che per parlare dei problemi del presente sia doveroso immergere l’opinione pubblica in un bagno gelido di espressioni politicamente corrette, mossi magari dall’idea sciocca che cambiare il nome alle cose sia l’unico modo per muoversi nella giusta direzione senza risultare indigesti agli elettori. L’Europa di oggi, Italia compresa, di fronte alla minaccia simmetrica portata avanti contro il nostro continente da Trump e Putin sta cercando di andare nella giusta direzione, a colpi di volenterosi, a colpi di riunioni improvvisate, a colpi di cambi di direzione, anche a colpi di sanzioni (e il fatto che Putin abbia chiesto a Trump come primo elemento di un negoziato sull’Ucraina di togliere di mezzo le sanzioni alla Russia, portate avanti dall’Europa, dovrebbe far comprendere che forse le sanzioni contro la Russia non sono state inutili, anzi). Ma nella stagione in cui l’Europa dei “parassiti” è minacciata dalle menzogne dell’America trumpiana per prendere sul serio la sfida lanciata contro l’Europa, sia da Trump sia da Putin, occorre guardare in faccia la realtà e chiamare le cose con il loro nome, e con coraggio. Sergio Mattarella, tre giorni fa, parlando con alcuni studenti in occasione di un evento a Roma organizzato per celebrare i Trattati europei, ha invitato a utilizzare le giuste parole, quando si ragiona sui dazi, e ha offerto uno spunto interessante. “Quando si parla di guerre commerciali spesso si mette l’accento sull’aggettivo commerciali”, ha detto il capo dello stato. “Bisogna metterlo, invece, sul sostantivo ‘guerre’, perché sono guerre anche queste: di contrapposizione, che inducono poi a contrapposizioni sempre più dure e più pericolose”. Chiamare le cose con il loro nome è il modo migliore per provare a capire come dominare le minacce del presente.
 
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