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Coppi: «I pm lascino stare gli scioperi. Per il caso Scazzi non dormo»

Antonio Rossitto, La Verità, 17 febbraio

Redazione InPiù 22/02/2025

Coppi: «I pm lascino stare gli scioperi. Per il caso Scazzi non dormo» Coppi: «I pm lascino stare gli scioperi. Per il caso Scazzi non dormo» I Pm lascino stare gli scioperi. Così Franco Coppi, il più illustre penalista d’Italia, sessantadue anni passati tra le aule dei tribunali, intervistato da Antonio Rossitto per La Verità del 17 febbraio sull’iniziativa delle toghe contro la riforma della giustizia. «Ho insegnato anche all’università. Fino a quando lo Stato ha deciso che non ero più capace farlo e mi ha mandato in pensione». Le ha viste tutte, ormai. È ricominciata l’eterna battaglia tra politica e toghe? «È una polemica che, nel tempo, ha avuto alti e bassi. C’è sempre stata, però. Oggi forse è più accentuata, anche perché i temi si sono moltiplicati. Manon m’ha colto di sorpresa, ecco». È inevitabile? «Bisognerebbe stabilire esattamente i confini. Se la magistratura si muove all'interno di quei limiti, il suo lavoro non diventa sindacabile. Che poi possa sbagliare, fa parte della giustizia umana, esposta all’errore». L’ultimo scontro è stato sul rimpatrio del generale libico, Osama Njeem Almasri: sono indagati Giorgia Meloni, due ministri e un sottosegretario. «Cosa ce ne facevamo in Italia di questo signore? L’abbiamo rispedito al suo Paese. Se lo tengano pure lì». Il governo ha fatto bene, allora? «Secondo me, sì». Nel caso Open Arms l’avvocato del vicepremier, Matteo Salvini, è una sua allieva: Giulia Bongiorno. Insieme, avete difeso Andreotti nel «processo del secolo». «Mi sembra che sia stata molto efficace, tanto è vero che hanno assolto Salvini». Ha raccontato che il suo primo insegnamento fu: «La giustizia è uguale per tutti, ma i giudici no». «Se non l’ho detto, l’ho pensato. A me comunque interessa, quando entro in tribunale, trovare giudici intellettualmente onesti. Poi, possono capitarne di preparati o meno preparati, di corretti o meno corretti». Esistono le «toghe rosse»? «A dir la verità, le ho sempre viste nere e con una bavetta bianca». Il premier vuole riformare la giustizia per «liberare la magistratura dal controllo delle correnti politicizzate». «Questo problema m’ha sempre lasciato abbastanza indifferente. Che litighino fra loro, m’interessa poco. Devono giudicare in un processo. Per il resto, facciano quello che gli pare». La separazione delle carriere è già stata approvata alla Camera. «Dal punto di vista teorico si possono trovare diecimila ragioni per legittimarla, ma quali problemi consentirebbe di superare? Assicura davvero una maggiore indipendenza del giudice rispetto al pubblico ministero?». I sondaggi, però, confortano il governo: per due italiani su tre è auspicabile. «Effettivamente, c’è un’attesa molto diffusa. È stata presentata molto bene. L’indipendenza del giudice e la parità tra accusa e difesa sono temi che fanno breccia nell’opinione pubblica. Ma io la vedo in maniera un po’meno drammatica». Sintetizzando: è utile, ma non decisiva. «Esatto». Cosa sarebbe determinante, invece? «In questi giorni mi sono stati chiesti patrocini in Cassazione per reati commessi nel secolo scorso». La durata dei processi, quindi. «Certo. Tra l’altro, tutti pensano sempre al poveretto che resta in attesa per un’eternità. Nessuno, però, si concentra sulle vittime: anni e anni per vedere riconosciuto un diritto. Immagini la vedova di una vittima in un incidente stradale. Continua ad aspettare il risarcimento, mentre magari il morto era l’unica fonte di guadagno per la famiglia». Carlo Nordio ex magistrato, è un buon ministro della Giustizia? «Vorrei evitare querele per diffamazione».
 
Nell’ultimo ventennio, però, lei non ha risparmiato critiche a nessun guardasigilli. «A parte la battuta: con lui ho avuto personalmente incontri molto cordiali, ma lo sento lontano dalle mie idee». Ha qualche suggerimento? «Non mi perderei dietro ai grandi principi e ai massimi sistemi. Nel processo penale ci sono tanti spunti che possono essere oggetto di riflessione. L’udienza preliminare, per esempio. Ha un’effettiva importanza? Val la pena di mantenerla? Potrebbe essere cambiata?». Giudici e pm si sollevano contro la riforma. L’Anm conferma lo sciopero del 27 febbraio. «Hanno tutto il diritto di pensare e dire ciò che ritengono. Gli scioperi, però, li lascino fare agli altri». Perché? «Mi pare poco elegante che un magistrato non vada in udienza come forma di protesta. Non accentua il valore della sua contestazione. Non richiama maggiormente  l’attenzione. Continuando a fare il suo dovere, può manifestare ugualmente il suo dissenso e dire ciò che vuole nelle sedi competenti». Le aule dei tribunali non sono convogli ferroviari, insomma. «Appunto. Lo sciopero non serve a nulla. Istintivamente, non mi piace». L’inchiesta su Toghe sporche e la condanna di Luca Palamara, storico presidente del sindacato, hanno intaccato anche la credibilità della categoria? «La vicenda non era certo encomiabile. Ma se la credibilità della categoria fosse legata a Palamara, povera magistratura allora». La responsabilità civile, che tanti invocano, sarebbe utile? «Un magistrato non deve lavorare con il terrore di essere chiamato a rispondere del suo operato. Deve cercare di non sbagliare, ma chiunque può commettere un errore. Ben diverso è il caso in cui dimostri malafede. Quello è un altro paio di maniche, chiaramente». Alcuni celebri fustigatori sono stati recentemente condannati.
 
L’ultimo è Fabio De Pasquale: avrebbe «tralasciato chirurgicamente i dati nocivi» nel processo Eni. «In astratto, un magistrato che sottrae prove commette un fatto grave». Prima era toccato a Piercamillo Davigo, ex eroe di Mani Pulite: un anno e tre mesi per rivelazioni d’atti d’ufficio nel «Caso Amara». «Su questo non posso dirle nulla, visto che adesso lo difendo». Il suo celebre motto ha forgiato generazioni di manettari: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». «È una bella battuta di spirito, che però non corrisponde al vero. Perché, purtroppo, ci sono molti casi di persone innocenti condannate ingiustamente. Non dimentichiamo i ventiquattro anni ad Andreotti, nel processo d’appello di Perugia, per il delitto del giornalista Mino Pecorelli». Un altro assistito illustre è Silvio Berlusconi. «Una persona piacevole, con cui è stato divertente passare ore e ore. Era un conversatore abilissimo. Io ascoltavo, soprattutto». L’ha difeso nel processo Ruby. Fu un’assoluzione clamorosa. «La motivarono, in particolare, alcuni profili tecnici: ovvero, la possibilità o meno di considerare quelle ragazze come testimoni. Fu un’assoluzione corretta». Qual è stato il processo più importante? «È sempre l’ultimo che si discute». Per favorire la buona sorte usa un cornetto napoletano. «Ho una sana superstizione. Me lo porto sempre appresso». Lo sfrega in udienza? «Ce l’ho nel portafoglio e ogni tanto lo tiro fuori. Una carezza non costa nulla». Avrà centinaia di aneddoti. «Mi piacerebbe avere il genio e la penna di Eduardo De Filippo. Tornerei ogni giorno a casa con una commedia. Qualche volta anche con una tragedia, purtroppo». Per esempio? «L’umanità è varia. Leggendo alcune sentenze o ascoltando talune discussioni, ti chiedi come mai una persona sia diventata un giudice o come mai un’altra abbia scelto di fare l’avvocato». Sono impreparati? «Si ascoltano cose singolari». Come nei film americani, durante le udienze disegna colleghi e pm. «Da giovane volevo fare il pittore. Mi è rimasta la mano per i ritratti. Di solito, poi, li appallottolo e li butto via. Qualcuno magari rimane nel fascicolo e vattelappesca». I giudici spesso attendono la prescrizione per evitare seccature? «Può capitare, anche se non dovrebbe». È un lavacro che risolve tutto? «Può favorire l’imputato, oppure danneggiarlo. Comunque, non è mai un bell’esito». Gli errori giudiziari sono frequenti? «Nella mia carriera ce ne sono stati, certo. Meno di quelli che si pensa, però». Come il delitto di Avetrana? «È la croce della mia vita». Difende Sabrina Misseri e sua madre, Cosima Serrano. «La loro innocenza è un tormento». Condannate all’ergastolo per l’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi. «La notte mi rigiro nel letto, angosciato. Non sono stato capace di tirare fuori dal carcere quelle due poverette. Ci penso di continuo. Spero di trovare qualcosa per farle uscire da questa situazione». Un assillo. «Ho avuto anche delusioni. Ho vinto processi che ero convinto di perdere. Ma ho perso cause che avrei dovuto vincere: per errori miei, oppure degli altri. Talvolta il giudice è stato impreparato, talvolta non ha capito alcune cose». Qual è stata la più grande soddisfazione, invece? «Le sembrerà ridicolo, ma resta uno dei primissimi processi. C’era ancora la pretura. Difendevo marito e moglie, accusati di aver gestito una tipografia senza autorizzazioni. Una causa banale. Ma la gioia di quelle persone che si riaffacciavano alla vita è un ricordo che mi accompagna da sessant’anni. Non dimenticherò mai la loro gratitudine».  E cosa le disse Andreotti dopo la celebre assoluzione? «È bastata una stretta di mano. Ha significato molto più di tante parole». A 86 anni, non manca un’udienza e resta in studio fino a sera. «Era sempre Andreotti a dire che i processi allungano la vita. Visto che ne ha azzeccate tante, spero che abbia azzeccato anche questa».
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