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Redazione InPiù 05/02/2025

Tutti i leader dell’Unione europea – osserva Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera – invocano «l’unità» per affrontare al meglio la doppia offensiva di Donald Trump su dazi e aumento delle spese militari. Ma come si è visto anche nel Consiglio europeo informale di lunedì 3 febbraio, le divisioni tra i 27 Paesi sono ancora profonde. In queste condizioni, l’unità, intesa come allineamento di politiche e di interessi, è fuori portata. Si può lavorare, invece, per raggiungere una difficile sintesi, un faticoso compromesso. Il problema di fondo è che si sono formati, in verità ormai da tempo, due schieramenti diversi e non sovrapponibili sui temi delle tariffe doganali e della difesa. Partiamo dal primo dossier: il surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti. I Paesi più esposti alle minacce di Donald Trump sono tre, come documentano i dati 2024 dell’Us Census bureau: Irlanda (avanzo di 80 miliardi di dollari); Germania (76,3 miliardi); Italia (39,6 miliardi). Non sorprende, quindi, trovare tra i più convinti fautori del dialogo serrato con Trump il primo ministro irlandese Micheál Martin e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Sul dossier militare, invece, le squadre cambiano vistosamente. Come rispondere all’ingiunzione americana: più soldi per l’esercito e le armi? Non il 5% del pil, incompatibile anche con il bilancio Usa; piuttosto il 3-3,5%. Il governo italiano ha già fatto sapere che al massimo può raggiungere il 2%. Roma può contare su Madrid, in qualche misura su Parigi e poco altro. L’attacco a tutto campo di Trump costringe gli europei a mescolare gli argomenti. Ma a un certo punto sarà necessario tirare le fila. Tutti dovranno rinunciare a qualcosa. La Francia alla linea dura sui dazi; Germania, Olanda e nordici al «no» agli eurobond e a vincoli di bilancio più blandi. La Polonia a una soglia insostenibile di spese militari. E l’Italia? Dovrà garantire ai partner che non sfrutterà il rapporto preferenziale con Trump, ammesso che alla prova dei fatti esista davvero, per cercare sconti sui dazi. Dopodiché Meloni sarebbe nelle condizioni di sollecitare più elasticità sulle regole di bilancio.
Carlo Cottarelli, la Repubblica
Su Repubblica Carlo Cottarelli si chiede se sia necessario per l’Europa aumentare le spese militari come richiesto da Trump. Il quale ha parlato del 5%, quando neppure gli Stati Uniti stanno a quel livello (nel 2024 erano al 3,4%). Ma di fronte alla pressione americana, si parla di almeno il 3% per il nostro continente. Ha senso? Nel 2024 la Russia aveva 146 milioni di abitanti (in declino da cinque anni) e un Pil di 6,9 trilioni di “dollari internazionali” (ossia a tassi di cambio a parità di potere d’acquisto, che tengono conto del minor costo della vita in Russia rispetto all’Europa, rendendo più adeguato il confronto). La Russia sarà pericolosa, ma è piccola rispetto all’Ue, che ha una popolazione 3 volte più grande e un Pil 4 volte più grande. Secondo il Sipri di Stoccolma, la Russia nel 2023 spendeva il 5,9% del Pil per la difesa (dire, più propriamente, per l’attacco), un valore molto più alto del 4% mantenuto prima dell’invasione dell’Ucraina. Questo equivale a circa 400 miliardi, in dollari internazionali. Il nostro 1,9% equivale a 530 miliardi (sempre in dollari internazionali), un terzo un più (a scanso di equivoci, se facessimo il confronto col Pil a tassi di cambio correnti il nostro vantaggio sarebbe ancora più alto, visto il Pil UE a tassi correnti è quasi nove volte più alto di quello russo). Ora, perché mai abbiamo bisogno di una spesa del 3% del Pil quando l’attuale livello di spesa (all’1,9%) è già di un terzo maggiore di quello russo, che è, fra l’altro, già gonfiato dallo sforzo bellico? Certo la Russia ha un vantaggio. Ha un unico esercito, mentre nell’Ue ne abbiamo 27 da coordinare. Ma se non possiamo avere un esercito comune, conclude Cottarelli, per lo meno facciamo uno sforzo senza precedenti per un migliore coordinamento e forse allora non dovremo spendere il 3% del Pil per fronteggiare l’orso russo, che non è più quello di una volta.
Ferdinando Adornato, Il Mattino
Donald Trump e i leader dell’Unione europea – commenta sul Mattino Ferdinando Adornato – hanno di fronte un’enorme responsabilità. Dietro l’annunciata guerra sui dazi, così come nei retroscena sul destino dell’Ucraina, si nasconde infatti un rischio storico: quello di una frattura politico-culturale di ciò che, fino ad oggi, abbiamo chiamato Occidente. Attenzione: non si tratta di un problema nato oggi. Dopo la caduta del Muro di Berlino i rapporti tra Europa e Usa si sono andati gradualmente indebolendo. Finita la guerra fredda, Washington non si sentiva più obbligatoriamente vincolata all’alleanza con il Vecchio Continente. Già nel milieu culturale di George W. Bush si cominciò a ragionare sulla grande differenza strategica tra il combattivo Marte (gli Usa) e l’estenuata Venere (l’Europa). Poi Barack Obama rese manifesto che, per i nuovi interessi strategici degli States, le terre europee erano assai meno importanti di un tempo. Su questo retroterra si è alla fine innestato il ciclone Donald Trump. Del resto anche in Europa, nello stesso tempo, si alternavano spinte politiche contraddittorie. Da una parte la contestazione della presunta postura “imperiale” di Washington (con la crescita di un diffuso antiamericanismo); dall’altra il timore, opposto, di perdere l’ombrello protettivo americano. Ciò che covava nel sottosuolo della coscienza delle classi dirigenti europee: il permanente pendolo tra bisogno di protezione e desiderio di autonomia. Quest’ultima si nutriva soprattutto del mai sopito spirito di “revanche”, prevalentemente francese. Ebbene, ecco allora il rischio che oggi grava su Washington come su Bruxelles: tirare troppo la corda delle frizioni, sottovalutando come un’eventuale rottura sarebbe per il mondo un disastro economico, politico e perfino etico. L’Occidente è uno, non possono diventare due. Nonostante le evidenti incomprensioni, la madre Europa e la figlia America recitano nel mondo da protagoniste di una medesima identità storico-culturale. Ebbene, se tale identità venisse meno, il quadro geopolitico mondiale registrerebbe un gigantesco passo indietro, soprattutto nella difesa delle democrazie e nella lotta per la libertà e i diritti umani.
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