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Redazione InPiù 03/02/2025

Perché Donald Trump scatena la guerra dei dazi senza nemmeno avviare un negoziato e nonostante quasi tutti, anche a destra — dal Wall Street Journal agli economisti e ai think tank conservatori — lo avvertano che danneggerà l’economia americana tra ripresa dell’inflazione e gelata del commercio? Si possono formulare tre ipotesi, scrive sul Corriere della Sera Massimo Gaggi. La prima ipotesi è quella dell’abbaglio storico-economico: il sogno di sostituire le tasse a carico degli americani con i dazi pagati dagli esportatori stranieri. Il suo ministro del Commercio, Howard Lutnick, vorrebbe tornare a inizio Novecento quando bastavano i dazi a coprire la spesa federale. Non è possibile. Trump sa che rischia di creare inflazione e di frenare l’economia: avverte che all’inizio ci saranno difficoltà, ma si dice fiducioso che i suoi elettori capiranno e stringeranno i denti. Quanto agli effetti negativi sulla crescita, conta di neutralizzarli con nuovi sgravi fiscali e un’ulteriore riduzione dei vincoli per le imprese. Una seconda interpretazione (parzialmente sovrapponibile alla prima) è legata alla concezione di Trump della politica in termini non di cooperazione multilaterale, ma di affermazione della leadership americana attraverso l’uso della forza soprattutto economica. Purtroppo dobbiamo considerare anche una terza ipotesi, ancor più radicale. L’ipotesi è che Trump, studiato da tempo il modo di governare in modo autoritario eliminando i vincoli che l’hanno frenato nel suo primo mandato, stia imponendo su tutti i fronti cambi di paradigma per affermare il potere assoluto dell’esecutivo, ignorando le leggi del Congresso (e, in qualche caso, la Costituzione), usando a sproposito poteri emergenziali, tastando il terreno per vedere fin dove può spingersi — all’interno e all’estero — senza incontrare grandi resistenze.
Marta Dassù, la Repubblica
Anche per Marta Dassù è finita la “pax americana”. Le tariffe (dazi doganali) decise da Trump II contro Messico e Canada, con un’aggiunta alla Cina per il commercio di Fentanyl, innescano potenzialmente quella che il Wall Street Journal definisce la guerra commerciale “più stupida” della storia. In effetti, le motivazioni economiche sono nulle – o quasi. E comunque lesive per settori dell’America stessa. Mentre il fine dichiarato è politico: sigillare i confini degli Stati Uniti all’immigrazione illegale, tagliare a zero i cartelli della droga, controllare la penetrazione cinese nel cortile di casa di Washington. O Messico e Canada collaboreranno (come la Colombia, ma sono la stessa cosa) o subiranno i costi dei dazi americani. Viene confermato, così, un tratto rilevante della politica estera di Trump II: la Casa Bianca rivendica, nell’Emisfero Occidentale, una propria sfera di influenza. Trump, che si richiama storicamente alle scelte di fine Ottocento (le presidenze di McKinley e di Theodore Roosevelt), applica nei fatti una sorta di dottrina Monroe aggiornata. Secondo cui l’America, nel proprio vicinato, non ha bisogno di alleati ma ha bisogno di paesi allineati. Se per Monroe e i suoi seguaci dell’Ottocento ciò significava eliminare le presenze coloniali europee, per Trump significa rafforzare la presa territoriale degli Stati Uniti, così da rafforzare la lotta all’immigrazione illegale, limitare l’influenza cinese (Canale di Panama) e acquisire nuove risorse strategiche. Che i dazi doganali siano lo strumento adatto per facilitare il compito è discutibile; ma l’idea sembra questa. Verso il resto del mondo, la logica è diversa. Trump II, come Trump I, vede nelle tariffe – che gran parte degli economisti considera soprattutto una tassa sui consumatori americani, con potenziali effetti inflattivi – la leva per riequilibrare i rapporti commerciali internazionali, con un abbattimento del deficit degli Stati Uniti. Sul piano interno, ciò serve in teoria a rendere sostenibili i tagli fiscali. E a proteggere parte di una manifattura “made in Usa”.
Francesco M. Del Vigo, Il Giornale
L’alieno Elon Musk – commenta sul Giornale Francesco M. Del Vigo – suona la sveglia a una sonnolenta Europa. Di fronte all’ultima dichiarazione del patron di Tesla c’è già qualcuno che si lamenta, denuncia l’ennesima ingerenza e si indigna come se gli si potesse tappare la bocca persino su X, cioè sul social network che si è comprato alla non popolare cifra di 44 miliardi di dollari per poter dire tutto ciò che gli passa per la testa. Invece ci sarebbe da riflettere e avere paura più della nostra passività che del suo iperattivismo. L’ultima cosa che gli è passata per la testa, appunto, è «Mega», acronimo di «Make Europe great again»: «Rendi l’Europa di nuovo grande», il calco dello slogan della campagna elettorale di Donald Trump trasportato nel Vecchio Continente. «Gente, unitevi al movimento Mega», ha scritto l’uomo più ricco del mondo sul suo profilo social, raccogliendo più di 60 milioni di visualizzazioni in poche ore. La proposta-provocazione arriva poco dopo la durissima polemica dell’imprenditore con il primo ministro britannico Keir Starmer e il rumoroso endorsement per l’AfD, il partito della destra radicale tedesca. Un Musk sempre più politico, sempre più interventista e sempre più europeo. Ma il problema è un altro: la boutade muskiana mette alla berlina l’inettitudine politica di un’Unione sempre più divisa, lontana dallo spirito dei tempi e dalle richieste dei cittadini. Paradosso per paradosso: «Mega» è la proposta più europeista che sia stata avanzata negli ultimi anni e non l’ha fatta un europeo, bensì un miliardario sudafricano con cittadinanza canadese e naturalizzato statunitense che pensa di colonizzare Marte e crede in un futuro multiplanetario. «Mega», «Rendere l’Europa di nuovo grande», cioè immaginare un Vecchio Continente unito non solo economicamente, ma anche politicamente e militarmente nella difesa dei tanti interessi comuni, perché in un mondo di superpotenze, divisi non si va da nessuna parte e, al momento, il peso politico di Bruxelles sullo scenario internazionale sembra più micro che mega.
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