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Redazione InPiù 29/01/2025

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio – commenta Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera – erano chiamati oggi in Parlamento per rispondere alle interrogazioni sul caso di Najeem Osama Almasri, il capo delle guardie libiche arrestato a Torino e riportato due giorni dopo con un volo di Stato a Tripoli. La scelta di annullare l’informativa è un’occasione persa. Perché poteva trasformarsi nel momento per fare finalmente chiarezza su quanto avvenuto tra il 19 gennaio, giorno della cattura, e il 21, giorno del rilascio. E così provare a svelenire un clima che l’avviso inviato alla presidente del Consiglio Meloni, al sottosegretario Mantovano e agli stessi Piantedosi e Nordio ha ulteriormente infiammato. Di fronte a una denuncia, non manifestamente infondata, la Procura di Roma era obbligata a trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri senza svolgere alcun accertamento. Ma appare chiaro che questa indagine non approderà a nulla perché – anche ipotizzando che il collegio ritenga fondate le accuse – sembra impossibile che il Parlamento conceda l’autorizzazione a procedere. Ma anche perché il governo – di fronte al rischio di un processo – potrebbe invocare il segreto di Stato. Ci sono molti interrogativi aperti in questa storia. Il primo riguarda il lavoro della Corte dell’Aia che ha atteso tre mesi prima di ordinare l’arresto di Almasri e l’ha fatto poi in tutta fretta quando stava arrivando in Italia, sebbene da due settimane il capo delle guardie libiche fosse in giro in Europa, tra Gran Bretagna, Belgio e Germania. Si tratta di un torturatore, come mai si è aspettato tanto? Il secondo interrogativo riguarda invece il governo. Appena il libico è finito in manette è stata avviata la procedura per rispedirlo a Tripoli. Il Guardasigilli Nordio non ha risposto ai giudici di Roma e si è deciso di caricarlo su un aereo dei servizi segreti per riportarlo in patria dove è stato accolto in trionfo in favore di telecamera. Tanta fretta è spiegabile soltanto con la necessità di rispondere alle pressioni dei libici. Ma allora sarebbe stato meglio ammetterlo, informare il Parlamento che esisteva una ragione di Stato, proprio come accaduto nel caso del rilascio dell’iraniano Abedini. Sono passaggi semplici, verrebbe da dire scontati, in un Paese normale.
Massimo Martinelli, Il Messaggero
L'iscrizione nel registro indagati della Procura di Roma del premier Meloni, di due tra i più autorevoli ministri del governo in carica e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, descrive perfettamente un corto circuito politico-giudiziario che rischia di gettare ombre sulla ritrovata autorevolezza dell'Italia in Europa e nel resto del mondo. E, soprattutto, commenta Massimo Martinelli sul Messaggero, veicola il messaggio surreale secondo il quale chiunque può denunciare un ministro o un presidente del Consiglio e ottenere che venga indagato. Con il corollario inevitabile di polemiche, di richieste di chiarimenti, di attacchi politici e di articoli di stampa negativi. A dare notizia della clamorosa iniziativa giudiziaria – un premier indagato con due ministri di punta e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è una cosa che non si era ancora mai vista, neanche negli anni di Tangentopoli – è stata la stessa Giorgia Meloni. E allora viene da chiedersi: ma davvero l'ombrello dell'“atto dovuto” utilizzato dalla procura di Roma può consentire a chiunque di denunciare un politico e spedirlo sulla graticola giudiziaria? Davvero un procuratore della Repubblica è ridotto al rango di passacarte e non ha il potere di verificare la credibilità delle denunce che gli arrivano sul tavolo? Davvero è possibile pensare che il ministro della Giustizia abbia favorito la “fuga” di un cittadino libico che è stato scarcerato da una corte d'Appello? E che lo stesso possa dirsi del ministro Piantedosi, che ha firmato l'espulsione di quel cittadino libico ormai libero e considerato pericoloso? Non sarebbe stato il caso di considerare il rimpatrio di quel libico un atto in nome della “ragion di Stato” e fare tesoro di quello che era successo neanche quindici giorni prima, quando all'arresto di un ingegnere iraniano era immediatamente seguito il sequestro della giornalista Cecilia Sala? Il sospetto è che dietro ci sia la volontà di innalzare il livello dello scontro tra il potere giudiziario e quello esecutivo.
Gianfranco Pasquino, Il Domani
“Una gamba davanti all’altra”. Prendo a prestito le dolenti parole della senatrice Liliana Segre – scrive Gianfranco Pasquino sul Domani – che descrivono la sua marcia per la vita per sottolineare che gradualmente, ma incessantemente i democratici e le loro democrazie sono in grando di imparare e riprendere il cammino della libertà. La celebrazione del Giorno della Memoria obbliga a riflettere, mi pare non venga fatto adeguatamente, sul regime politico che lanciò il genocidio e sui governi dei paesi, a cominciare dal fascismo italiano, che furono zelanti e attivissimi compici: il totalitarismo nazista coadiuvato da autoritarismi più o meno duri. Certamente, tutti quei sistemi politici privi di qualsiasi elemento democratico mostrarono notevoli capacità decisionali. Però, dovremmo davvero considerare la velocità delle decisioni una caratteristica positiva e intimare una caratteristica positiva e intimare alle democrazie contemporanee di apprenderla e farne molto rapidamente uso? Fermo restando che sono ormai più di trent’anni che il numero delle democrazie cresce e che nel tempo una sola, quella già minata dall’interno del Venezuela, è crollata, come si fa a sostenere che il paradigma liberal-democratico è venuto meno? Nella misura in cui una democrazia abbandona il liberalismo che è diritti politici, civili, anche sociali più il quadro costituzionale di separazione delle istituzioni e loro relativi autonomia semplicemente non è più tale. Democrazia illiberale non è un ossimoro. Ma una gamba davanti all’altra, conclude Pasquino, le democrazie reagiscono alle sfide politiche economiche tecnologiche nessuna delle quali ha finora avuto successo, con l’ampio repertorio degli strumenti del pluralismo sociale, culturale, persino religioso di cui dispongono. Smentiscono anche i profeti di sventure che con i loro tristi allarmismi pensano di appuntarsi i galloni del progressismo popolar democratico. Meglio che meditino più a fondo. L’età delle democrazie continua a essere con noi, davanti a noi.
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