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Il passo falso di Trump in Ucraina

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 27/01/2025

Il passo falso di Trump in Ucraina Il passo falso di Trump in Ucraina Paolo Mieli, Corriere della Sera
L’Ucraina – commenta Paolo Mieli sul Corriere della Sera – si sta rivelando come il primo, plateale passo falso commesso da Donald Trump. Non già (soltanto) per la promessa non mantenuta di risolvere la questione in quarantott’ore. Il mondo intero è sempre stato consapevole del fatto che quelle parole, pronunciate nel corso della campagna elettorale, erano niente di più di una spacconata e che, per restituire la pace a Kiev, non saranno sufficienti né quarantott’ore, né quarantotto giorni. È un passo falso per la sua immagine. Per il fatto che la sua mano tesa ai russi ha ottenuto da Mosca risposte di sprezzante irrisione. Nella prima settimana della sua «seconda volta» alla Casa Bianca, ha scritto Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Trump «ha cercato di confondere il mondo intero». La Russia, però, secondo Medvedev, non si lascia ingannare. Non si possono poi trascurare i toni usati dal consigliere di Putin, Dmitrij Suslov, nell’intervista concessa a Paolo Valentino per le pagine di questo giornale. Dopo aver riconosciuto a Trump il «merito» di non essere intenzionato a perseguire la «sconfitta militare russa» e di aver accettato la ripresa di una «diplomazia diretta» – cioè, senza intermediari europei – Suslov ha messo in chiaro che l’Ucraina deve rimanere «militarmente debole», «genuinamente neutrale», una «zona cuscinetto» priva di «partnership, forniture d’armi», a cui non deve essere consentita la partecipazione a «manovre militari congiunte». Quanto alle forze straniere di interposizione tra la parte d’Ucraina annessa militarmente dalla Russia e quel che resterà del Paese, non se ne parla nemmeno. Saranno sufficienti «garanzie scritte». Come quelle del passato. Zelensky non deve essere ammesso al negoziato. Putin si siederà a un tavolo per ratificare la capitolazione del governo di Kiev solo dopo che in Ucraina si saranno tenute nuove elezioni e ci sarà un «nuovo governo» con un «nuovo presidente». Altrimenti? Nel caso queste condizioni non siano accettate, «la guerra continuerà» fino al giorno in cui «la stessa esistenza dell’Ucraina sarà messa in discussione». Più chiaro di così?
 
Paolo Garimberti, la Repubblica
Su Repubblica Paolo Garimberti si occupa di difesa comune europea, settore in cui l’Europa nei prossimi mesi sarà chiamata a battere un colpo. Sono due i modi possibili. Il primo, forse quello preferito da Donald Trump, è di non toccare nulla, lasciare le cose come stanno e provvedere, Paese per Paese, a incrementare la spesa arrivando al 2% del Pil (Spagna e Italia sono sotto questa soglia) e magari facendo qualche passo ulteriore nella direzione della soglia iperbolica del 5% invocata dal presidente americano. Sarebbe una formidabile occasione sprecata. L’altro tipo di risposta è appunto la difesa comune europea. Ossia cogliere l’occasione per fare finalmente progressi negli acquisti comuni di sistemi di difesa (risparmiando molte risorse), nello sviluppo dell’industria comune, nella preferenza per i sistemi europei di difesa. L’appello a produrre e acquistare in comune è rimasto finora inascoltato. Oggi potrebbe invece essere raccolto, per le circostanze geopolitiche e per i vincoli della finanza pubblica, a condizione che si accompagni finalmente con un consistente incentivo proveniente da risorse europee comuni. Un Fondo comune per la difesa del valore di 500 miliardi farebbe la differenza tra gli appelli e la realtà. La decisione non è ancora matura a Bruxelles e le resistenze non mancano, il Consiglio europeo ne discuterà nel ritiro convocato da António Costa per il prossimo 3 febbraio. Un Fondo comune creerebbe una convenienza per il made in Europe, superando le abitudini di acquisto di ciascuna forza armata nazionale. Incoraggerebbe lo sviluppo di sistemi di difesa comuni, cominciando da quelli con un più evidente vantaggio nella dimensione di scala europea, ad esempio un sistema di difesa aerea e missilistica integrata, o la difesa delle infrastrutture sottomarine, o ancora le attività cyber o le nuove generazioni di droni. Sarebbe una risposta competitiva verso gli stessi Stati Uniti sul piano industriale, ma pienamente cooperativa su quello geopolitico, dal momento che questo “pilastro europeo” non potrebbe che essere complementare alla Nato. Sarebbe infine un bel passo avanti nel disegno europeo, con una nuova emissione di eurobond, dopo quelli per Next Generation Eu e per il sostegno all’Ucraina.
 
Maurizio Belpietro, La Verità
I magistrati in Italia sono circa 10.000, ricorda Maurizio Belpietro su La Verità,  ma quelli che abbiamo visto all’opera sabato, con manifesti che richiamavano la Costituzione e cartelli che inneggiavano alla resistenza contro il governo, erano molti meno. Secondo il Corriere, a Milano sulle scale del tribunale (per una protesta che ricordava quella dei parlamentari di Forza Italia a sostegno di Silvio Berlusconi: una nemesi) ce n’erano al massimo 150. Secondo l’agenzia di stampa La Presse invece erano appena una sessantina. Tuttavia l’organico di giudici e pm del distretto nel capoluogo lombardo è - lo dice il Csm - di 765. Il che la dice lunga su una battaglia che secondo i vertici dell’Anm mette in discussione addirittura l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, al punto da minacciare la stessa applicazione della giustizia. Se quella voluta da Carlo Nordio fosse davvero una riforma che piega i magistrati al servizio della politica e priva i cittadini del diritto di ottenere un processo equo, le toghe avrebbero aderito come un sol uomo alla protesta. E invece, nonostante la grancassa suonata da alcuni giornali, così non è. Del resto, mentre i vertici dell’Associazione nazionale magistrati dipingono un quadro desolante nel caso in cui il disegno di legge Nordio diventasse esecutivo, più voci di magistrati in servizio o di pm e giudici in pensione, e dunque fuori dalle guerre condotte dal l’Anm, si sono levate per contestare la narrazione imposta dai sindacalisti delle toghe. Il primo a smontare la tesi di una magistratura assoggettata al potere politico per via della separazione delle carriere è stato Antonio Di Pietro, il quale con un’intervista ha demolito la maggior parte delle tesi precostituite dai suoi ex colleghi. Certo, l’allora pubblico ministero di Mani pulite è in pensione, e dopo aver fatto il ministro di Romano Prodi e aver fondato un partito coltiva i suoi terreni. Ma anche se ha appeso la toga al chiodo è pur sempre rimasto il faro dei giustizialisti e dunque sentire lui spazzar via le balle dell’Anm fa un certo effetto.
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