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Sfumate le certezze, servono le scelte
La posta in gioco per l'Europa
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 23/01/2025

“Le diplomazie europee sono al lavoro per preparare il vertice informale dei capi di Stato e di governo, in programma il 3 febbraio, nello Châteaudi Limont, in Belgio”. Lo scrive Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera ricordando che “in agenda ci sarà quella che i funzionari chiamano in codice «La Risposta» da dare a Donald Trump. Il presidente americano, come si è visto anche ieri a Davos, ha occupato lo spazio delle relazioni transatlantiche con una serie di totem. Quello che forse ci inquieta di più è la minaccia di togliere la protezione militare americana a quei Paesi che non aumenteranno le spese per la difesa. Trump ha anche indicato una soglia che deve valere per tutti i 32 partner della Nato: il 5% del pil. Molti governi del Vecchio continente, compreso quello italiano, hanno già dichiarato pubblicamente che è un obiettivo irraggiungibile. Ma nessuno, almeno finora, ha detto ad alta voce ciò che viene condiviso nelle conversazioni informali tra le diverse capitali europee. Quel 5% è insostenibile anche per gli Stati Uniti. È un totem dall’aspetto truce, ma con una base di sabbia. I principali Paesi europei – scrive l’editorialista - hanno già sconfessato la convinzione-tabù dominante fino al 24 febbraio 2022, il giorno dell’attacco putiniano all’Ucraina: occorrono gli affari, non le armi per convivere pacificamente con la Russia. Ora, però, si sta discutendo su come mettere in campo un’azione coerente e, soprattutto, concreta. L’appuntamento del 3 febbraio sarà un passaggio importante. Tra i cinque grandi Paesi della Ue, solo Italia e Spagna non hanno ancora raggiunto l’obiettivo di spesa militare pari al 2% del pil. Germania, Francia e Polonia sono ben al di là. Ma senza un allentamento del Patto di stabilità europeo, italiani e spagnoli rimarranno a lungo in coda. Ecco perché va osservato con attenzione il «format Varsavia». È un’iniziativa promossa dalla Polonia che ha messo insieme Germania, Francia, Regno Unito, Italia e, di recente, Spagna per elaborare una posizione comune. Il confronto sembra produttivo. Ma, naturalmente, sarà decisivo l’impatto con Trump. La previsione più quotata è che gli alleati potrebbero accordarsi su un impegno di spesa intorno al 3-3,5% del pil. Per l’Europa sarebbe un ritorno all’epoca della Guerra Fredda”.
Massimo Adinolfi, la Repubblica
Massimo Adinolfi su Repubblica parla dei nuovi insulti ricevuti da Liliana Segre e scrive perché la Memoria della Shoa sia più che mai necessaria: “Dopo Auschwitz – scrive l’editorialista - disse il filosofo Theodor W. Adorno, scrivere una poesia è un atto di barbarie e tutta la cultura non è che spazzatura. Voleva dire: non si può più scrivere, fare teatro o comporre versi come se nulla fosse, come se non fosse mai successo nulla. Non resta, dunque, che tacere. Ogni rappresentazione, ogni libro, ogni opera rischia di suonare falsa e ipocrita, un imbellettamento indecente sopra l’orrore. Ma è vero il contrario, lo capiamo sempre meglio, col passare del tempo, via via che il ricordo sbiadisce e, se non già la dimenticanza, certo la minimizzazione, la relativizzazione, l’indifferenza prendono sempre più piede. Liliana Segre parla, e non ricorda soltanto. Ricorda che è un dovere morale e civile ricordare. Nonostante sia oggetto costante di campagne di odio sui social, non si fa scoraggiare né si lascia piegare. È successo, può succedere ancora, scriveva Primo Levi. Ed è tanto più vero, purtroppo, quanto più piovono insulti e minacce, quanto più aumentano gli episodi di antisemitismo, crescono intimidazioni e violenze, e si prende di mira persino il cinema dove proiettano il film Liliana, e la guerra a Gaza, come un tappo saltato, fa tornare a galla putridi sentimenti di odio razziale. Forse – osserva Adinolfi - l’allarme rientrerebbe più facilmente se non si vedessero in giro braccia tese e cerimonie e rituali in camicie nere. Solo folklore? Solo equivoci ed esagerazioni? Possibile. Ma che dire allora del clima complessivo, della sempre più evidente fragilità delle istituzioni democratiche e dell’avanzata, un po’ ovunque, di formazioni di estrema destra? Il clima, dunque, è questo. Liliana Segre è stanca. Ma è la democrazia, purtroppo ad essere stanca, a mostrarsi sfilacciata, sfiancata, agitata da vecchi e nuovi fantasmi, esposta a vecchie e nuove minacce. Alla possibilità che il vecchio si saldi col nuovo, e il passato si travesta da futuro. Certo, ci vuole una forza enorme. E una forza ancora più grande e un enorme coraggio civile occorre per vivere e testimoniare ancora e nuovamente: vivere per testimoniare, forse anche testimoniare per poter vivere. Per fare non la propria vita ma la nostra, la vita di tutti noi ancora degna di essere vissuta. Per non darla vinta a chi insulta e odia, a chi diffama e istiga. A chi non ricorda in quale abisso precipitò l’Italia, l’Europa, il mondo intero”.
Giovanni Orsina, La Stampa
“«Oggi firmerò una serie di decreti esecutivi. Cominceremo così la completa restaurazione dell'America e la rivoluzione del senso comune. Il nocciolo di tutto è il senso comune». Questa – scrive Giovanni Orsina sulla Stampa - è la frase cruciale del discorso inaugurale di Donald Trump, e qui si trova la chiave della sua vittoria. Eppure, il passaggio mi sembra sia stato alquanto trascurato nel diluvio di commenti di questi giorni, un po' troppo spesso impegnati più a stigmatizzare quando non irridere le iniziative del nuovo presidente, a infilzare questa o quella sua contraddizione o fake news, a piangere amare e pensose lacrime sui destini della democrazia, che a fare realisticamente i conti con quel che sta accadendo. E invece dobbiamo farci i conti, perché la rielezione di Trump non è detto apra le porte al mondo di domani, ma è quasi certo che abbia chiuso quelle del mondo di ieri. Il tema del senso comune, variamente declinato, è il cuore della rivolta politica dell'ultimo decennio. Abbiamo sentito contestare questi slogan un'infinità di volte, negli ultimi dieci anni. Sono tutte obiezioni più che fondate. Ma – spiega Orsina - dovranno farei conti, rima o poi, con i settantasette milioni di voti che ha raccolto Trump. Un dato di realtà duro come la pietra, la dimostrazione di come la politica del senso comune, agli occhi degli elettori, sia apparsa più forte delle sue controindicazioni. Quanti continuano a ripetere quelle obiezioni, pur fondate, paiono incapaci di fare i conti con questo dato di realtà. E finiscono così per dare ragione alla diagnosi populista, a chi ritiene che la politica tradizionale e l'establishment istituzionale e intellettuale siano ormai sideralmente distanti da fasce assai consistenti di elettorato, ne siano separati da un invalicabile muro di incomprensione. Quel muro, fatto di autoreferenzialità, supponenza e moralismo, della cui esistenza chiunque in questi ultimi anni abbia frequentato anche solo sporadicamente i salotti dell'establishment, i corridoi delle istituzioni europee, le aule delle università non può non essersi reso conto, se solo ha tenuto gli occhi e le orecchie un po'aperti. Chiunque, in maniera del tutto legittima, detesti Trump e voglia vederlo sparire il prima possibile – conclude l’editorialista - dovrà confrontarsi col senso comune al quale lui parla, dovrà trovare dei modi alternativi per entrare nella concreta vita quotidiana dell'elettore medio”.
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