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Le cattive abitudini in Europa

Sintesi degli editoriali dei principali giornali

Redazione InPiù 16/01/2025

Le cattive abitudini in Europa Le cattive abitudini in Europa Angelo Panebianco, Corriere della Sera
Sul Corriere della Sera Angelo Panebianco torna sulla questione della difesa europea, sottolineando come i problemi da affrontare in materia – apparentemente irrisolvibili – siano due. Il primo consiste nell’identificazione del potenziale nemico o dei potenziali nemici. Il secondo nella identificazione del decisore: chi decide se e come usare la forza in presenza di una minaccia alla sicurezza dell’Europa? Nelle condizioni attuali, la difesa europea, non essendo più scontata la protezione americana, dovrebbe servire per dissuadere la Federazione russa dal lanciarsi, dopo l’Ucraina, in altre avventure militari in Europa. Se non che, investire sulla sicurezza militare in chiave anti-russa è una operazione che si scontra contro un potente ostacolo. Le opinioni pubbliche europee sono divise: una parte considera la Russia un pericolo per l’Europa e un’altra parte no. Ci sono membri dell’Unione (Ungheria, Slovacchia) che operano apertamente come quinte colonne di Putin entro l’Unione. E ci sono movimenti politici filo-russi in Francia, Germania, Italia, Austria e altrove. Basta dunque solo enunciare il problema per capire l’irrealizzabilità del proposito. Per cui: niente comune identificazione del nemico potenziale, niente difesa europea. Anche il secondo problema è un macigno che impedisce di dare vita alla difesa comune. È la celebre formula del giurista tedesco Carl Schmitt: sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. Chi sarebbe, in una situazione di emergenza, di minaccia all’Europa, il decisore? Chi avrebbe il potere di decidere quando e come impiegare la forza militare per difendere l’Europa da un eventuale pericolo? Davvero qualcuno pensa che una tale decisione possa essere contrattata fra 27 Paesi (più gli altri che si aggiungeranno), ciascuno dotato di potere di veto? Senza un decisore la difesa dell’Europa non può diventare un «bene pubblico», ossia un bene posto a tutela di tutti i membri dell’Unione.
 
Maurizio Molinari, la Repubblica
L'accordo su liberazione degli ostaggi israeliani e cessate il fuoco nella Striscia di Gaza è frutto delle forti pressioni esercitate da Donald Trump ma è appeso a un filo, commenta Maurizio Molinari su Repubblica. Si tratta infatti di un compromesso fragile perché tanto Israele che Hamas lo interpretano solo come una tappa verso un obiettivo strategico che permane: eliminare l’avversario. Per questo motivo l’ostacolo spuntato e rientrato nell’ultimora sul controllo del corridoio Philadelphi – che separa la Striscia dall’Egitto – è lo specchio di una vulnerabilità intrinseca ad ogni dettaglio del compromesso raggiunto dai mediatori a Doha. A rendere possibile la tregua dopo 15 mesi di guerra feroce, con un bilancio pesante di vittime e sofferenze civili su entrambi i fronti, sono state le forti pressioni del presidente americano eletto, Donald Trump, che ha minacciato di scatenare l’“inferno” per far comprendere a tutte le parti in causa – inclusi Qatar, Iran e Turchia, protettori di Hamas – che il prezzo del fallimento sarebbe stato troppo alto da sopportare. Poiché la richiesta di Trump è sempre stata di raggiungere l’intesa sulla liberazione degli ostaggi entro il giorno del suo insediamento a Washington, il 20 gennaio, il fattore-tempo ha imposto di ricorrere all’unico schema d’accordo già esistente – tre fasi successive per superare gli ostacoli – frutto della mediazione del presidente uscente, Joe Biden, avvenuta in estate. Ma se questa è la cornice della forte pressione esterna, risultato della collaborazione de facto fra Trump e Biden, che ha portato Hamas e Israele a convergere sulla tregua, i contenuti concordati sono resi vulnerabili dal fatto che i contendenti restano convinti di avere entrambi almeno un’altra mano a disposizione per poter prevalere sull’avversario. Israele ritiene che Hamas sia in ginocchio. Ma Hamas interpreta lo stesso accordo in maniera opposta perché la liberazione di un numero limitato di ostaggi nella prima fase gli consente di sfruttare la pausa di 42 giorni per tornare in possesso delle aree della Striscia da cui l’Idf si ritirerà.
 
Vittorio Sabadin, Il Messaggero
Sul Messaggero anche Vittorio Sabadin sottolinea il carattere fragile della tregua siglata da Israele e Hamas dopo 466 giorni di guerra terribile. In cambio degli ostaggi israeliani ancora prigionieri saranno rilasciati 1.000 palestinesi, un quarto dei quali sono terroristi condannati per attentati sanguinari. Ma i problemi lasciati aperti – osserva Sabadin – sono ancora enormi e quando lo scambio di prigionieri sarà concluso le ostilità potrebbero ricominciare. Sia Israele che Hamas avevano bisogno di una tregua. La guerra seguita all’incursione dei terroristi in territorio israeliano nella strage del 7 ottobre ha messo a dura prova l’esercito di Israele, presto impegnato in numerosi fronti, da Gaza al Libano alle al- ture del Golan. L’esercito è composto in gran parte da riservisti, che hanno lasciato il loro lavoro per andare a combattere. L’economia ha rallentato, l’assenza dai posti di lavoro si è fatta sentire e c’era un grande bisogno di tirare un po’ il fiato. Hamas ha perso nel conflitto quasi tutti i suoi capi, e l’organizzazione è stata duramente sconfitta. Ha bisogno di una tregua per riorganizzarsi, per individuare nuovi dirigenti, per rifornirsi di armi ora che i le- gami con Hezbollah, la Siria e l’Iran si sono allentati. La feroce guerra che Netanyahu ha combattuto per rispondere al terrorismo ha ridisegnato il quadro dell’intera regione, ma non ha risolto i problemi. I cessate il fuoco in Medio Oriente sono da sempre soltanto piccoli periodi di tregua nei quali ci si scambiano i prigionieri e ci si riorganizza un po’. Prima della guerra, Netanyahu appariva un leader finito, chiamato a rispondere di accuse gravi in tribunale e rimasto in sella solo grazie all’alleanza con i falchi del parlamento israeliano. Ora è il premier che ha riportato a casa gli ostaggi. Ad un costo elevatissimo, ma anche la regina Elisabetta II, quando andò in visita in Germania e la contestarono per i bombardamenti alle città, si giustificò dicendo: "Non siamo stati noi a cominciare".
 
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