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Quel taglio all'Ires pagato con più tasse
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 12/12/2024
Quel taglio all'Ires pagato con più tasse
Veronica De Romanis, La Stampa
Sulla Stampa Veronica De Romanis commenta la legge di bilancio in discussione in Commissione alla Camera. “Come è noto, uno dei principali obiettivi di questo governo è la riduzione delle tasse. Qualche passo in avanti è stato fatto. A cominciare dal cuneo fiscale diventato finalmente strutturale. Diverse perplessità derivano, tuttavia, dal metodo seguito: le minori tasse sono state finanziate con maggiori tasse. E, infatti, dal 2024 al 2025 le entrate in rapporto al Pil aumentano di mezzo punto percentuale, attestandosi al 47,1%. Il metodo viene riproposto in questi giorni di dibattito sulla Legge di Bilancio. Ad esempio, per finanziare il taglio dell’Ires (circa 3-4 punti rispetto al 24% attualmente in vigore) alle imprese che assumono e investono, la Lega propone di tassare ancora una volta le banche e le assicurazioni. Il costo ammonta a circa 400 milioni. Ma non solo. Si sta cercando di applicare lo stesso metodo anche per un altro taglio, più corposo: quello dell’aliquota Irpef dal 35% al 33% per i redditi tra 28 e 50 mila. Servono circa 2, 5 miliardi. Per ora non sono state trovate coperture, ovvero nuove tasse. In realtà, esse andrebbero trovate dal lato delle spese che nel 2025 restano invariate al 50,4%. Sono tutte necessarie e indispensabili? No, lo dimostra l’ultimo dato Istat sul Pil del terzo trimestre, che è stato pari allo 0,5%. Si è tornati in fondo alla classifica. Il motivo è presto detto: è terminato l’effetto dei tanti bonus introdotti negli ultimi anni. Quelle risorse pubbliche hanno drogato l’economia dando l’impressione che fosse sufficiente spendere per crescere: i dati dimostrano il contrario. Per crescere serve un sistema stabile, certo, capace di attrarre gli investimenti. Quindi anche una minore pressione fiscale” ma “la strada per ridurre le tasse – conclude De Romanis - è quella del taglio strutturale delle spese”.
Vittorio Sabadin, Il Messaggero
Sul Messaggero Vittorio Sabadin parla dell’annus horribilis dell’Iran. “Questa settimana entrerà in vigore la nuova legge che punisce anche con la pena di morte le donne che non rispettano i precetti di castità e la cultura del hijab: il cieco fondamentalismo degli ayatollah va avanti come se il mondo intorno a loro non stesse collassando e modificando i vecchi equilibri a una velocità sorprendente. Negli ultimi decenni l’Iran ha dedicato molte risorse a contrastare Israele e Stati Uniti nella regione, finanziando l’«asse della resistenza» in cinque paesi del Medio Oriente. Esercitava un potere che si estendeva a ovest fino al Mediterraneo e a sud fino al mare arabico, grazie alle alleanze con Hamas e Hezbollah, con i gruppi sciiti iracheni, con gli Houthi dello Yemen, la Siria di Assad e la benevola protezione di Russia e Cina. Finanziando e contribuendo a organizzare l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, l’Iran ha però decretato anche la dissoluzione della sua galassia di alleanze. Dopo un anno di guerre, Hamas è decimata, ha perso la presa su Gaza e non è più in grado di governare. La forza militare di Hezbollah si è frantumata e Assad è stato costretto a fuggire a Mosca. Gli Houthi dello Yemen giocano ormai una loro partita periferica”, mentre “tutti i capi dei gruppi terroristici dei quali l'Iran si serviva per combattere le sue guerre sono stati uccisi da blitz israeliani o americani. Il Wall Street Journal si domandava ieri se il regime di Teheran non sarà il prossimo a cadere. Il crescente malcontento della popolazione e le pressioni esterne che vengono anche dal mondo arabo, uniti all’indebolimento militare e nella leadership, formano una miscela che potrebbe diventare presto esplosiva. Privo dei gruppi armati che lo servivano, l’Iran in questo momento non può fare molto. Potrebbe accelerare il programma nucleare, un’ultima disperata risorsa che aprirebbe scenari apocalittici. L’altra cattiva notizia del 2024 per l’Iran è stata infatti l’elezione di Donald Trump, che si spera non ripeta in Medio Oriente gli errori commessi dai suoi predecessori democratici”.
Carlo Galli, Repubblica
Su Repubblica Carlo Galli commenta l’evoluzione politica del M5s. “La lunga lotta interna al M5s, intrapresa da Giuseppe Conte per ancorarlo al campo ‘progressista’ e per liberarlo dal garante Beppe Grillo, pareva l’inizio di una nuova stagione nella quale la politica delle mani libere o dei due forni fosse archiviata in nome di una più solida strumentazione ideologica. E’ comprensibile la riluttanza di Conte a stabilire fin d’ora uno stretto e inscindibile legame con il Pd. Vuole avere, e marcare, una propria identità e autonomia. Ma il punto è che Conte va sostenendo anche la vecchia estraneità rispetto alla dicotomia destra-sinistra; e afferma, invece, di riconoscersi in un’altra distinzione, quella fra progressisti e conservatori. Si istituisce così una sconnessione fra sinistra e progressismo, una mancata coincidenza che al tempo delle ideologie forti sarebbe forse stata giustificata: i comunisti non erano propriamente progressisti ma rivoluzionari. Ma oggi, e da tempo, l’identità progressista (o se si vuole liberal) è l’unica rimasta alle sinistre: un’identità più debole che in passato, che tuttavia dovrebbe essere orientata a una scala di valori (libertà, uguaglianza, solidarietà) ai quali la destra fa riferimento in misura minore, preferendo subordinarli a efficienza, sicurezza, identità. L’idea è che quei valori di sinistra prefigurino una società più aperta e inclusiva, appunto più progredita, rispetto a quelli della destra. Forse la tesi di Conte equivale all’affermazione che la sinistra di oggi ha tradito sé stessa, cioè che non è più progressista, e che il M5S deve prenderne il ruolo. Ma nella reticenza sulla bipartizione tradizionale dello spazio politico c’è una profonda ambiguità. Il progressismo disancorato dalla distinzione fra destra e sinistra è consegnato fatalmente alla tattica e genera una politica ondivaga, occasionale, che si intesta il diritto di decidere di volta in volta che cosa è ‘progresso’”.
Sulla Stampa Veronica De Romanis commenta la legge di bilancio in discussione in Commissione alla Camera. “Come è noto, uno dei principali obiettivi di questo governo è la riduzione delle tasse. Qualche passo in avanti è stato fatto. A cominciare dal cuneo fiscale diventato finalmente strutturale. Diverse perplessità derivano, tuttavia, dal metodo seguito: le minori tasse sono state finanziate con maggiori tasse. E, infatti, dal 2024 al 2025 le entrate in rapporto al Pil aumentano di mezzo punto percentuale, attestandosi al 47,1%. Il metodo viene riproposto in questi giorni di dibattito sulla Legge di Bilancio. Ad esempio, per finanziare il taglio dell’Ires (circa 3-4 punti rispetto al 24% attualmente in vigore) alle imprese che assumono e investono, la Lega propone di tassare ancora una volta le banche e le assicurazioni. Il costo ammonta a circa 400 milioni. Ma non solo. Si sta cercando di applicare lo stesso metodo anche per un altro taglio, più corposo: quello dell’aliquota Irpef dal 35% al 33% per i redditi tra 28 e 50 mila. Servono circa 2, 5 miliardi. Per ora non sono state trovate coperture, ovvero nuove tasse. In realtà, esse andrebbero trovate dal lato delle spese che nel 2025 restano invariate al 50,4%. Sono tutte necessarie e indispensabili? No, lo dimostra l’ultimo dato Istat sul Pil del terzo trimestre, che è stato pari allo 0,5%. Si è tornati in fondo alla classifica. Il motivo è presto detto: è terminato l’effetto dei tanti bonus introdotti negli ultimi anni. Quelle risorse pubbliche hanno drogato l’economia dando l’impressione che fosse sufficiente spendere per crescere: i dati dimostrano il contrario. Per crescere serve un sistema stabile, certo, capace di attrarre gli investimenti. Quindi anche una minore pressione fiscale” ma “la strada per ridurre le tasse – conclude De Romanis - è quella del taglio strutturale delle spese”.
Vittorio Sabadin, Il Messaggero
Sul Messaggero Vittorio Sabadin parla dell’annus horribilis dell’Iran. “Questa settimana entrerà in vigore la nuova legge che punisce anche con la pena di morte le donne che non rispettano i precetti di castità e la cultura del hijab: il cieco fondamentalismo degli ayatollah va avanti come se il mondo intorno a loro non stesse collassando e modificando i vecchi equilibri a una velocità sorprendente. Negli ultimi decenni l’Iran ha dedicato molte risorse a contrastare Israele e Stati Uniti nella regione, finanziando l’«asse della resistenza» in cinque paesi del Medio Oriente. Esercitava un potere che si estendeva a ovest fino al Mediterraneo e a sud fino al mare arabico, grazie alle alleanze con Hamas e Hezbollah, con i gruppi sciiti iracheni, con gli Houthi dello Yemen, la Siria di Assad e la benevola protezione di Russia e Cina. Finanziando e contribuendo a organizzare l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, l’Iran ha però decretato anche la dissoluzione della sua galassia di alleanze. Dopo un anno di guerre, Hamas è decimata, ha perso la presa su Gaza e non è più in grado di governare. La forza militare di Hezbollah si è frantumata e Assad è stato costretto a fuggire a Mosca. Gli Houthi dello Yemen giocano ormai una loro partita periferica”, mentre “tutti i capi dei gruppi terroristici dei quali l'Iran si serviva per combattere le sue guerre sono stati uccisi da blitz israeliani o americani. Il Wall Street Journal si domandava ieri se il regime di Teheran non sarà il prossimo a cadere. Il crescente malcontento della popolazione e le pressioni esterne che vengono anche dal mondo arabo, uniti all’indebolimento militare e nella leadership, formano una miscela che potrebbe diventare presto esplosiva. Privo dei gruppi armati che lo servivano, l’Iran in questo momento non può fare molto. Potrebbe accelerare il programma nucleare, un’ultima disperata risorsa che aprirebbe scenari apocalittici. L’altra cattiva notizia del 2024 per l’Iran è stata infatti l’elezione di Donald Trump, che si spera non ripeta in Medio Oriente gli errori commessi dai suoi predecessori democratici”.
Carlo Galli, Repubblica
Su Repubblica Carlo Galli commenta l’evoluzione politica del M5s. “La lunga lotta interna al M5s, intrapresa da Giuseppe Conte per ancorarlo al campo ‘progressista’ e per liberarlo dal garante Beppe Grillo, pareva l’inizio di una nuova stagione nella quale la politica delle mani libere o dei due forni fosse archiviata in nome di una più solida strumentazione ideologica. E’ comprensibile la riluttanza di Conte a stabilire fin d’ora uno stretto e inscindibile legame con il Pd. Vuole avere, e marcare, una propria identità e autonomia. Ma il punto è che Conte va sostenendo anche la vecchia estraneità rispetto alla dicotomia destra-sinistra; e afferma, invece, di riconoscersi in un’altra distinzione, quella fra progressisti e conservatori. Si istituisce così una sconnessione fra sinistra e progressismo, una mancata coincidenza che al tempo delle ideologie forti sarebbe forse stata giustificata: i comunisti non erano propriamente progressisti ma rivoluzionari. Ma oggi, e da tempo, l’identità progressista (o se si vuole liberal) è l’unica rimasta alle sinistre: un’identità più debole che in passato, che tuttavia dovrebbe essere orientata a una scala di valori (libertà, uguaglianza, solidarietà) ai quali la destra fa riferimento in misura minore, preferendo subordinarli a efficienza, sicurezza, identità. L’idea è che quei valori di sinistra prefigurino una società più aperta e inclusiva, appunto più progredita, rispetto a quelli della destra. Forse la tesi di Conte equivale all’affermazione che la sinistra di oggi ha tradito sé stessa, cioè che non è più progressista, e che il M5S deve prenderne il ruolo. Ma nella reticenza sulla bipartizione tradizionale dello spazio politico c’è una profonda ambiguità. Il progressismo disancorato dalla distinzione fra destra e sinistra è consegnato fatalmente alla tattica e genera una politica ondivaga, occasionale, che si intesta il diritto di decidere di volta in volta che cosa è ‘progresso’”.
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