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Incertezze americane

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 10/12/2024

In edicola In edicola Massimo Gaggi, Corriere della Sera
“Sempre convinto che la politica estera vada gestita come un dealmaking vantaggioso per gli Stati Uniti, Donald Trump si prepara a tornare alla Casa Bianca avvertendo che non vuole coinvolgimenti diretti nella partita siriana”. Lo scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera: “Ma – osserva l’editorialista - il leader repubblicano eredita un mondo molto diverso e più complesso rispetto a quello di quattro anni fa. Difficilmente potrà permettersi il lusso del disimpegno. Sul piano diplomatico e, forse, anche su quello militare. Il crollo del regime di Assad gli offre l’opportunità di aumentare la pressione sulla Russia e sull’Iran, nemici indeboliti: a Putin chiede di negoziare subito la pace per l’Ucraina. Con l’Iran è più complicato: a Teheran c’è chi vuole tornare a negoziare fermando il programma nucleare e chi vuole l’atomica a tutti i costi. Ultima linea di difesa di un regime sempre più vulnerabile. Trump si mostra duro, ma ha mandato Elon Musk a sondare l’ambasciatore iraniano all’Onu. Ora, però, con la caduta di Assad, tutto passa per la Turchia di Erdogan, potenza regionale che estende la sua influenza. In quest’ultimo scorcio della sua presidenza, Biden gioca una partita densa di inevitabili contraddizioni: da un lato continua ad appoggiarsi ai curdi che per Erdogan sono terroristi, nemici giurati. Non solo usa le loro basi – sottolinea Gaggi - ma, ora che il regime di Assad è evaporato, li incoraggia a espandere la loro presenza verso il centro della Siria per evitare che nel vuoto di inserisca l’Isis. Dall’altro, non potendo parlare direttamente con l’HTS di Al Jolani, entrato da vincitore a Damasco ma la cui organizzazione è tuttora bollata come terrorista dal governo Usa, lo sta facendo attraverso il governo turco. Ed è attraverso Ankara che Al Jolani promette di creare. A Washington c’è anche chi si chiede se, nel nome della riconciliazione (e delle ambiguità di Erdogan), Al Jolani non lascerà qualche spazio ai russi e agli iraniani, messi alle corde dalla perdita del loro canale di rifornimento degli hezbollah libanesi che passa proprio dalla Siria. Improbabile vista la ferocia della guerra combattuta fin qui, ma non da escludere. Il Pentagono assicura che non darà tregua all’Isis. Né pensa di smantellare le sue basi. Ma tra sei settimane inizierà l’era Trump. Cambierà rotta? Sicuramente il nuovo presidente riconoscerà un ruolo maggiore alla Turchia, precondizione per un suo eventuale, parziale disimpegno. È quello che si aspettano i turchi che hanno festeggiato l’elezione del leader repubblicano”.
 
Luigi Manconi, la Repubblica
Luigi Manconi su Repubblica polemizza sugli attacchi del governo al diritto di sciopero: “Nuove affermazioni tonitruanti e misure d’autorità a proposito dell’esercizio del diritto di sciopero in occasione dell’astensione dal lavoro annunciata per il prossimo venerdì. Sullo sfondo – scrive l’editorialista - è in atto la più aspra battaglia delle idee e la più violenta campagna ideologica degli ultimi quarant’anni, che hanno come posta in gioco alcune parole cruciali, i loro significati controversi e le loro possibili conseguenze. Qui è in palio, in primo luogo, quella egemonia culturale contesa tra i due schieramenti che si fronteggiano nello scenario politico nazionale. In particolare, negli ultimi mesi, una insidiosa guerra di logoramento viene condotta contro il vocabolario progressista e di sinistra, e i relativi valori di riferimento, facendolo vacillare e rivelandone la crisi profonda in corso ormai da tempo. Una offensiva che incrina i fondamenti della mentalità democratica di massa e ne indebolisce le categorie essenziali erodendo la memoria condivisa. Accade così che un fattore cruciale della modernità e dello sviluppo civile delle società libere, quale è lo sciopero – sottolinea Manconi - venga messo in discussione non in base a un criterio razionale di opportunità o di efficacia, ma proprio in relazione alla sua legittimità. E accade ancora che il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, che ricorre al lessico tradizionale, direi classico, del movimento operaio e sindacale, poco manca che venga tacciato di terrorismo. Dietro tale contestazione ideologica emergono due tendenze. La prima è il pregiudizio verso tutto ciò che appare come ‘disordine sociale’ e motivo di ‘turbamento dell’ordine Pubblico’, all’interno di una prospettiva di controllo dall’alto delle dinamiche collettive e di disciplinamento dei movimenti delle masse. La seconda tendenza è quella al corporativismo come sistema nel quale gli interessi dei gruppi e i conflitti, a partire da quello tra capitale e lavoro, vengono mediati dalla politica del potere in nome dell’interesse generale e della ragion di Stato. Entrambe le tendenze rappresentano l’esatto opposto delle ‘società aperte’ e delle teorie democratiche e liberali. Quando un membro del governo interferisce pesantemente, e spesso trivialmente, con le decisioni sindacali, oscillando tra sbeffeggiamento e criminalizzazione – conclude - non siamo in presenza di una ordinaria ‘dialettica democratica’, bensì di una inequivocabile pulsione all’arbitrio”.
 
Marco Revelli, La Stampa
“Quante parole sono state pronunciate, dopo ogni morte sul lavoro (si contano in media tre disgrazie al giorno)? Quante promesse non mantenute, da parte dei legislatori di turno? Quanti impegni non rispettati, nei Palazzi del potere? Acqua sulle pietre”. Così Marco Revelli sulla Stampa: “Eppure – sottolinea l’editorialista - qualche riflessione aggiuntiva si imporrebbe, al di là dei soliti rituali, in particolare a partire dall’ultima strage consumatasi alla periferia di Firenze (ancora Firenze, dopo la precedente disgrazia del cantiere di Esselunga). Un disastro terribile, non solo per il numero delle vittime: cinque morti, decine di feriti, una minaccia ambientale fortunatamente limitata dal forte vento che tirava. Ma anche perché si è trattato di una ‘tragedia annunciata’. Ma c’è un’ulteriore elemento su cui riflettere. E che distende ombre lunghe sulla rischiosità del lavoro in questo Paese, e sulle responsabilità di chi dovrebbe occuparsene. Ed è il fatto che i numerosi incidenti che nell’ultimo periodo hanno fatto registrare numeri particolarmente elevati di vittime, a volte cinque, come nel più recente caso, a volte sette, hanno riguardato dei veri colossi industriali. Non piccole imprese a gestione famigliare, cantieri-polvere dove il costo per la sicurezza rischia di essere insostenibile a causa della fragilità finanziaria della proprietà – scrive Revelli - ma grandi gruppi dalle spalle robuste. Ci sarebbero grandi margini per investire in sicurezza, delle persone e degli impianti. Ma quella voce non tocca il cuore degli azionisti… Anche perché, nel dibattito pubblico, cessata l’emozione della notizia, il tema passa regolarmente in cavalleria. O peggio…Sì, peggio, perché si fa strada, sotto traccia, uno stile di pensiero segnato dall’assuefazione e da una sorta di cinismo della prestazione che sembra suggerirci che un qualche prezzo, fosse pure di sangue, bisogna ben pagarlo, se si vuole continuare a godere di beni e servizi che servono alla nostra comodità. L’impressione, sgradevole, è che si in cominci ad applicare al lavoro la stessa logica che si impiega per la guerra: ‘chi va in fabbrica, come chi va sul campo di battaglia, dovrebbe sapere che un rischio c’è, di cadere’. Del resto, ‘non viene pagato per questo?’. È un piano inclinato pericoloso, terribile, questo modo di ragionare”.
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