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Stellantis, una crisi nella crisi

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 03/12/2024

Stellantis, una crisi nella crisi Stellantis, una crisi nella crisi Daniele Manca, Corriere della Sera
La crisi Stellantis evidenziata dalle dimissioni del suo numero uno Carlos Tavares avrà molte conseguenze, commenta Daniele Manca sul Corriere della Sera. Per affrontarle va evitato però un rischio: pensare che si tratti di una situazione comune all’intero settore automobilistico. È vero, ma solo in parte. Vero per le drammatiche evoluzioni che potrà avere, che ci riguardano e ci riguarderanno tutti. In termini sociali, di occupazione, di mancata ricchezza creata e per questo di potenziali nubi che si addensano sull’orizzonte europeo e nazionale. Ma c’è un caso nel caso che si chiama Stellantis.  Stellantis – osserva Manca –  è una crisi nella crisi. Ma si deve fare un salto indietro al 18 dicembre 2019 data a suo tempo considerata storica per capirne la portata. Quando la famiglia azionista di Fca tramite Exor guidata da John Elkann va a nozze in Francia con gli amici di sempre, i Peugeot. I cronisti e gli analisti finanziari in quei giorni arrivano a parlare di vendita ai francesi. E arriviamo all’oggi. Con gli stabilimenti tricolori in cassa integrazione. Con i nuovi modelli dei marchi italiani che a stento si vedono. Con la continua delocalizzazione della produzione in Polonia, in Serbia, in Marocco. Delocalizzazione che stride con i fornitori che producono in Italia e continuano a fornire le aziende auto di tutto il mondo. A dimostrazione che si può essere competitivi. E che dire del Parlamento quasi sfidato nei giorni scorsi da Tavares e costretto a incassare il rifiuto di John Elkann a un confronto? L’Italia diventa così l’esempio di una fusione più finanziaria che industriale. Nata sull’onda di mode gestionali che vedevano nella dimensione una strada per far sinergie, taglio dei costi. E non la possibilità di maggiori investimenti. Maggiore ricerca. E anche modelli aziendali più flessibili e capaci di rispondere a un mercato che cambia. Il rompicapo adesso è per colui che aveva conferito Fca in Stellantis: John Elkann. È lui che alla guida del comitato esecutivo dovrà scegliere il sostituto dell’amministratore delegato dimissionario. Un ritorno brusco a quella fabbrica dell’auto che la sua famiglia aveva creato. Da dove tutto era partito e che aveva fatto approdare in Francia. Ma servirà molto di più che un nome da indicare al posto di quello di Tavares.
 
Mario Deaglio, La Stampa
Come scrive sulla Stampa Mario Deaglio, sarebbe un grave errore considerare la vicenda Stellantis come una crisi prevalentemente italiana o franco-italiana, risolvibile con interventi di puro sussidio decisi da governi già molto fortemente indebitati. La crisi, infatti, riguarda, con maggiore o minore intensità e con caratteristiche in parte diverse, tutta l’Europa, il Giappone, il Nordamerica, ossia le grandi aree che hanno finora trainato l’economia mondiale. È dovuta, prima di tutto, a fattori strutturali che rendono inutile, o addirittura controproducente, l’azione non coordinata di singoli governi. Il primo di questi fattori è di natura demografica: è noto che nei paesi ricchi la popolazione sta invecchiando sempre più rapidamente e che gli anziani riducono le proprie ore di guida e, con l’avanzare dell’età, giungono al punto di non guidare affatto. Il mutamento dei gusti, legato anche alla crescita dei divari di ricchezza e reddito, è il secondo di questi fattori. Negli Stati Uniti, tra i giovani di età tra i 20 e i 24 anni, uno su cinque non ha la patente, mentre quarant’anni fa si trattava di uno su dodici; e non ha la patente perché imparare a guidare costa e molto spesso perché né lui né la sua famiglia sono in condizioni di dotarlo di un’automobile. Infine, le grandi metropoli si stanno “chiudendo” pressoché ovunque, ossia rendono più difficile e carissimo l’uso dell’auto nelle zone centrali, costruite in passato per un traffico molto diverso. L’auto appare quindi avviata a un ruolo secondario nel panorama economico del futuro. Questo mutamento strutturale che pareva avviato ad assomigliare a un lento, e magari glorioso, tramonto, ha subito un’accelerazione pericolosa per il tentativo di introdurre con estrema rapidità tipi di veicoli non inquinanti. Un mutamento di struttura tecnologica, economica e sociale del tipo di quello che si sta prospettando non può certamente essere gestito in maniera tradizionale. È necessario partire precisamente da questi allungamenti dei tempi e prevedere un’azione concertata a livello di grandi aree, ossia, nel nostro caso, a livello europeo. Oltre che maggiore tempo, l’uscita da questo tunnel richiede anche denaro, molto denaro. E queste risorse finanziarie non possono che essere fornite a livello europeo. Il che chiama in causa non solo il Parlamento ma anche la Bce.
 
Stefano Folli, la Repubblica
Come un fiume carsico che ogni tanto riemerge in superficie, osserva su Repubblica Stefano Folli, si torna a parlare del Centro, ossia la misteriosa aggregazione moderata che un giorno prenderà forma e obbligherà le forze radicalizzate verso sinistra e verso destra a venire a più miti consigli. Ma visto che il sistema è orientato verso un tendenziale bipolarismo, secondo Folli, sarebbe meglio dimenticare per un momento la parola “centro” e riferirsi invece a un’area che si batte con delle idee per ottenere una serie di riforme economiche, sociali, legate al buon funzionamento della giustizia. Esiste quest’area desiderosa di riforme? Calenda, Marattin, Boschi e altri, più o meno divisi su tutti, sono spesso interpreti di istanze che il cittadino non può non condividere, ma cosa vogliono in realtà? Il Terzo Polo è fallito a suo tempo per i dissidi tra Renzi e Calenda e oggi è lecito domandarsi quanto spazio ci sia per influenzare e riequilibrare l’agenda di Elly Schlein, Landini, Fratoianni, Bonelli, fino a Conte. Senza voti, sembra un’impresa ardua. Ma esiste un altro Centro — moderato per eccellenza — che si colloca nel centrodestra: Forza Italia, il gruppo di Lupi, altre sigle in via di formazione. È figlio delle correnti della vecchia Dc che non andarono con la sinistra ed è quello che già esiste nella pratica. È nostalgico, certo, dei tempi lontani, rinverditi dalla lunga stagione berlusconiana. Tajani garantisce solidi rapporti con i Popolari tedeschi e in fondo gode di una rendita di posizione tra l’8 e il 10 per cento. Giorgia Meloni un po’ se ne serve e un po’ lo teme. Da ultimo si sforza di rafforzare il mini-partito di Lupi per avere una sponda fidata, cosa che non sempre Forza Italia riesce a garantire, condizionata com’è dagli stati d’animo della famiglia Berlusconi.
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