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Crescita e ricambio a Berlino

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 07/11/2024

In edicola In edicola Francesco Giavazzi, Corriere della Sera
“L’uscita dei liberali dalla coalizione che sostiene il governo di Berlino è una buona notizia per la Germania e anche per l’Europa”. Così Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera: “I liberali, e soprattutto il loro leader, Christian Lindner, fino a ieri ministro delle Finanze, hanno condizionato il governo del cancelliere Olaf Scholz insistendo su un’applicazione rigida della legge sul «freno al debito», una norma che di fatto non consente spese in deficit, neppure per investimenti pubblici. È inutile illudersi. Senza i liberali Scholz non supererà il voto di fiducia del Bundestag necessario per approvare la legge di bilancio e la Germania tornerà presto alle urne. Ma le dimissioni di Lindner e il ritorno di Trump alla Casa Bianca pongono Berlino di fronte a scelte che finora ha cercato di mascherare e che da qualche tempo sono emerse nel dibattito tedesco. I Paesi dell’Ue non possono più illudersi che l’ombrello americano continui a proteggerli gratuitamente. E presto, io spero, si porrà il problema della ricostruzione dell’Ucraina: gli americani, anche l’amministrazione Biden, hanno sempre detto che quei costi dovranno essere pagati dagli europei. Oggi – osserva l’editorialista - Trump a ovest, e a est il progetto di Putin di ricreare una Grande Russia autocratica e il disegno di Xi di imporre l’egemonia della Cina nella tecnologia, richiedono un’Europa forte. L’alternativa è lasciare in eredità ai nostri figli una provincia, magari senza debito, ma irrilevante e sottomessa. Il mondo è diventato per l’Europa un luogo insicuro. Il punto di partenza è un debito europeo comune, senza il quale oggi è impossibile finanziare la ricostruzione dell’Ucraina, o costruire un sistema di difesa che ci renda indipendenti, per quanto possibile, dagli Stati Uniti, o la ricerca sulla fusione nucleare, la vera sfida della transizione verde. Occorre abbandonare l’idea che il debito sia solo un onere trasmesso alle generazioni future. Se consentirà loro di vivere in un continente libero e che cresce perché collocato sulla frontiera della tecnologia, ripagare il debito non sarà necessariamente un onere. Perché – conclude - ciò che conta non è il debito in sé, ma il debito in rapporto al Pil: e se l’economia cresce quel rapporto scende da solo e il debito non va ripagato”.
 
Lucio Caracciolo, la Repubblica
Lucio Caracciolo su Repubblica parla degli ‘ostacoli dietro la vittoria’: “Donald Trump – scrive l’editorialista - è il presidente, non il padrone degli Stati Uniti. Tantomeno l’imperatore del mondo. La scena americana e quella planetaria sono in fase di accelerata mutazione, come sempre accade nelle transizioni egemoniche. Il sole a stelle e strisce sta tramontando senza che nessuno sia in grado di prenderne il posto. Ne deriva anarchia geopolitica ed economica, eccitata dal panico di chi abituato a orientarsi sulla stella fissa è senza riferimenti. Vale per amici e nemici del numero uno in panne. Per chi come noi è parte dell’ecumene occidentale in contrazione e per i suoi avversari sempre più numerosi e disinibiti. Tre osservazioni invitano a considerare gli ostacoli contro cui Trump rischia di inciampare. La prima riguarda i rapporti di forza nel sistema americano in decomposizione. Il presidente è stato eletto per causa di questa crisi, ma ora dovrà gestirla. Anzitutto, la frattura scomposta e incomponibile fra popolo ed élite, ovvero fra deplorevoli bifolchi e arroganti senza patria, stando alle invettive reciproche. Due nazioni. O almeno due modi opposti e incompatibili di sentirsi americani. Democratici e repubblicani non si sopportano. La seconda nota – sottolinea Caracciolo - riguarda le resistenze dei burocrati e dello Stato profondo. Trump conta su Congresso, Corte Suprema e Casa Bianca. Vedremo fino a che punto. Ma le tecnocrazie che dovrebbero eseguire i suoi decreti ribollono di dirigenti e funzionari che lo detestano. E che considerano dovere patriottico ostacolarlo. La misura del suo potere l’avremo fra qualche mese, ad amministrazione insediata. Dai malanni interni deriva infine il ripido declino dell’impegno dunque dell’influenza americana nel mondo. Fin qui i dati. Poi ci sono le incognite. E le sorprese. Una è in agguato dove Trump meno se l’aspetta (o forse sì, ma allora recita bene). Si chiama Elon Musk. ‘È nata una stella’, ha proclamato il presidente nel giorno del trionfo. Una stella, appunto, non un pianeta. Musk – conclude - non riflette la luce del sole Trump perché emette la sua. Ed è abituato a muoversi per conto proprio”.
 
Giovanni Orsina, La Stampa
“E’ ben evidente al tempo stesso come l'elezione di Trump offra a Meloni delle opportunità politiche tutt'altro che marginali”. Lo scrive Giovanni Orsina sulla Stampa: “Conferma innanzitutto la lettura politica della nostra epoca che la Presidente del Consiglio ha messo alla base della sua azione politica. Una lettura che, a ripercorrerla in breve, denuncia l'autoreferenzialità e perdita di rappresentatività crescenti delle élite progressiste, vieppiù concentrate su temi che la maggioranza dell'opinione pubblica considera marginali, e vaticina di conseguenza l'inevitabile affermarsi nello spazio politico democratico di una nuova destra capace di connettersi al senso comune di quella maggioranza, restituirle un minimo di identità e solidarietà collettive e tutelarne gli interessi in casa e sulla scena globale. Poiché la politica è in buona parte amministrazione del futuro – sottolinea l’editorialista - il politico che dimostri di saper leggere correttamente il corso della storia guadagna immediatamente forza agli occhi degli elettori. E non solo. Il politico che dimostri di saper leggere correttamente il corso della storia avrà maggiori possibilità di affrontarla con un piano d'azione efficace. Nei suoi due anni di governo, Meloni ha seguito in Europa una strategia dell'ambiguità: ha dialogato e collaborato col centro destra del Partito popolare, ma ha preservato buoni rapporti anche con le destre patriottiche e sovraniste. Il disegno era chiaro: poiché era convinta, come detto, che le destre fossero destinate a crescere elettoralmente, riteneva che la conventio ad excludendum nei loro confronti dovesse prima o poi venire meno e che ci fosse quindi bisogno di un «pontiere» o «traghettatore» che, al momento giusto, le riportasse all'interno del gioco. E si candidava a svolgere questo ruolo, persuasa di poterne trarre un vantaggio politico. Adesso l'elezione di Trump, ferme restando le occasioni perdute, rafforza senz'altro la strategia. L'affermarsi delle destre, la diagnosi da cui Meloni era partita, è sempre più evidente. E il mainstream europeo – conclude - sarà costretto a trattare con Trump- e la Presidente del Consiglio, forte del rapporto col nuovo inquilino della Casa Bianca, anche attraverso Elon Musk, potra più che mai candidarsi a far da pontiere, in questo caso tra le due sponde dell'Atlantico”.
 
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