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Ma l'America resterà un paese in affanno
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 05/11/2024
Ma l'America resterà un paese in affanno
Massimo Gaggi, Corriere della Sera
Oggi – scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera – nelle elezioni più contestate del Dopoguerra, gli Stati Uniti si giocano, oltre alla Casa Bianca e al controllo del Congresso, un pezzo consistente della stabilità delle istituzioni e della credibilità del loro democrazia. Qualunque sia l’esito del voto, sempre che sia netto, non contestato, gli americani e l’Occidente dovranno abituarsi a una superpotenza in affanno nello svolgimento del ruolo fin qui avuto nel mondo o che, addirittura, potrebbe cambiare drammaticamente rotta. Lo scenario al quale l’Europa guarda con più speranza, la vittoria di Kamala Harris, erede dei valori liberaldemocratici e della fedeltà alla Nato di Joe Biden, sarebbe comunque quello di una presidenza non solo tormentata dalle prevedibili contestazioni, ma anche frenata da un Senato ostile. Se, infatti, tutti i sondaggi hanno indicato fino all’ultimo che la corsa per la Casa Bianca si risolverà in un testa a testa, è molto probabile che i democratici perdano il controllo del Senato, essenziale soprattutto per il suo ruolo di ratifica delle nomine presidenziali: tutti, ministri, capi delle agenzie federali, giudici, ambasciatori, per entrare in carica avranno bisogno dell’approvazione di questo ramo del Congresso. Cosa che metterà la Harris in condizioni di notevole debolezza: cercare compromessi con una maggioranza trumpiana probabilmente furente o ritrovarsi con le mani legate. Difficile che le cose possano andare in altro modo. Un ritorno di Trump alla Casa Bianca è invece un buco nero. A sentire quello che lui stesso ha detto negli ultimi comizi, si occuperà soprattutto di vendette. Di certo, a differenza del primo mandato, quando fu circondato da conservatori rispettosi delle istituzioni che hanno frenato i suoi istinti più estremi, stavolta sceglierà i collaboratori tra una schiera di fedelissimi pronti a seguirlo sulla strada di una modifica del funzionamento dei meccanismi dello Stato in una direzione autoritaria.
Maurizio Molinari, la Repubblica
Come sottolinea su Repubblica Maurizio Molinari, c’è la Pennsylvania al centro della sfida fra Kamala Harris e Donald Trump per la Casa Bianca e ciò riaccende i riflettori sullo Stato rivelatosi spesso decisivo nelle trasformazioni dell’America. La storia della Pennsylvania inizia nel 1681, quando il re d’Inghilterra Carlo II concede a William Penn, un quacchero, una vasta area di terra. Penn fonda la Pennsylvania con l’intento di creare un luogo di tolleranza religiosa e governo democratico. Le sue idee di libertà e uguaglianza trasformano la Pennsylvania in un faro di speranza, attirando immigrati europei in cerca di diritti. Quando nel 1775 inizia la rivoluzione è Philadelphia, la più grande città dello Stato, a diventare il cuore della rivolta contro l’Impero britannico e, l’anno seguente, i rap- presentanti delle 13 colonie ribelli firmano la Dichiarazione di Indipendenza nella Pennsylvania State House oggi meglio nota come la Independence Hall, dove ogni studente americano mette piede dopo aver sostato davanti alla “Liberty Bell”, la campana che suonò nel primo “Independence Day”, diventando poi un simbolo del movimento contro la schiavitù. Nell’Independence Hall si gettano le fondamenta della Repubblica, esprimendo volontà di indipendenza ed autogoverno che, 11 anni dopo, fanno tornare Philadelphia protagonista per la riunione dei 54 delegati che scrivono la Costituzione, creando un sistema di governo basato sull’equilibrio fra i poteri, federale e statale, e sui diritti fondamentali dei cittadini. L’inizio del XXI secolo passa per il prato di Shanksville, contea di Somerset, dove precipita uno dei quattro aerei commerciali dirottati dai terroristi di Al Qaeda nell’attacco dell’11 settembre 2001. Specchio di una popolazione rurale con- servatrice e urbana liberal, nelle elezioni più recenti la Pennsylvania si è trasformata da roccaforte democratica nello “Stato in bilico” che indovina il Presidente: nel 2008 e nel 2012 premiò Obama, nel 2016 Trump e nel 2020 Biden. E anche oggi la nazione aspetta il suo verdetto. Perché la Storia americana passa per le terre di William Penn.
Pietro Reichlin, La Stampa
La sfida tra Harris e Trump – commenta sulla Stampa Pietro Reichlin – è il laboratorio politico del nuovo millennio e serve a capire l’evoluzione ideologica che subiranno destra e sinistra nelle democrazie occidentali. I temi proposti all’elettorato dai due candidati non sono nuovi, in parte anticipati dalla Brexit e dalla crescita del sovranismo, ma l’impatto delle elezioni americane è gravido di nuovi rischi per l’economia mondiale. Partiamo da una premessa necessaria. Il programma economico di Trump è incoerente e pericoloso, non solo per l’Europa e i paesi emergenti, ma per la stabilità della stessa economia americana. Queste incoerenze sono state denunciate nei giorni scorsi con una lettera aperta di 23 premi Nobel per l’economia. Si può dire, con un certo grado di confidenza, che è difficile trovare qualche economista di fama che approvi le promesse del candidato repubblicano. Trump vuole quattro cose: protezionismo (tariffe al 60% su tutti i prodotti cinesi, al 10% su quelli europei, rinegoziazione del trattato con Messico e Canada), blocco drastico dell’immigrazione (e deportazione di massa degli immigrati illegali), tagli a imposte e spesa sociale (demolizione di “Obama-Care”), ritorno alle energie fossili. Tutte queste misure, fatte in modo intenso e indiscriminato, possono peggiorare il benessere sociale sia in Usa che nel mondo. In altre parole, potrebbe accadere il contrario di ciò che Trump si augura: la riduzione dell’inflazione e la re-industrializzazione. L’aumento delle tariffe doganali potrebbe ridurre di qualche punto percentuale il disavanzo commerciale americano, ma si accompagnerebbe, nel medio-lungo periodo, ad un aumento dei prezzi interni e una perdita del potere di acquisto dei salari. Il blocco all’immigrazione potrebbe creare un eccesso di domanda di manodopera e avere effetti inflazionistici o contenere la dinamica del Pil. Il taglio delle tasse e della spesa pubblica aumenterebbe la povertà e la disuguaglianza dei redditi (già molto elevata), e vanificherebbe l’obiettivo di estendere a tutti i cittadini l’assicurazione sanitaria. Infine, il negazionismo ambientale e il ritorno alle fonti energetiche fossili non farebbe che accelerare il surriscaldamento globale e gli eventi meteorologici estremi.
Oggi – scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera – nelle elezioni più contestate del Dopoguerra, gli Stati Uniti si giocano, oltre alla Casa Bianca e al controllo del Congresso, un pezzo consistente della stabilità delle istituzioni e della credibilità del loro democrazia. Qualunque sia l’esito del voto, sempre che sia netto, non contestato, gli americani e l’Occidente dovranno abituarsi a una superpotenza in affanno nello svolgimento del ruolo fin qui avuto nel mondo o che, addirittura, potrebbe cambiare drammaticamente rotta. Lo scenario al quale l’Europa guarda con più speranza, la vittoria di Kamala Harris, erede dei valori liberaldemocratici e della fedeltà alla Nato di Joe Biden, sarebbe comunque quello di una presidenza non solo tormentata dalle prevedibili contestazioni, ma anche frenata da un Senato ostile. Se, infatti, tutti i sondaggi hanno indicato fino all’ultimo che la corsa per la Casa Bianca si risolverà in un testa a testa, è molto probabile che i democratici perdano il controllo del Senato, essenziale soprattutto per il suo ruolo di ratifica delle nomine presidenziali: tutti, ministri, capi delle agenzie federali, giudici, ambasciatori, per entrare in carica avranno bisogno dell’approvazione di questo ramo del Congresso. Cosa che metterà la Harris in condizioni di notevole debolezza: cercare compromessi con una maggioranza trumpiana probabilmente furente o ritrovarsi con le mani legate. Difficile che le cose possano andare in altro modo. Un ritorno di Trump alla Casa Bianca è invece un buco nero. A sentire quello che lui stesso ha detto negli ultimi comizi, si occuperà soprattutto di vendette. Di certo, a differenza del primo mandato, quando fu circondato da conservatori rispettosi delle istituzioni che hanno frenato i suoi istinti più estremi, stavolta sceglierà i collaboratori tra una schiera di fedelissimi pronti a seguirlo sulla strada di una modifica del funzionamento dei meccanismi dello Stato in una direzione autoritaria.
Maurizio Molinari, la Repubblica
Come sottolinea su Repubblica Maurizio Molinari, c’è la Pennsylvania al centro della sfida fra Kamala Harris e Donald Trump per la Casa Bianca e ciò riaccende i riflettori sullo Stato rivelatosi spesso decisivo nelle trasformazioni dell’America. La storia della Pennsylvania inizia nel 1681, quando il re d’Inghilterra Carlo II concede a William Penn, un quacchero, una vasta area di terra. Penn fonda la Pennsylvania con l’intento di creare un luogo di tolleranza religiosa e governo democratico. Le sue idee di libertà e uguaglianza trasformano la Pennsylvania in un faro di speranza, attirando immigrati europei in cerca di diritti. Quando nel 1775 inizia la rivoluzione è Philadelphia, la più grande città dello Stato, a diventare il cuore della rivolta contro l’Impero britannico e, l’anno seguente, i rap- presentanti delle 13 colonie ribelli firmano la Dichiarazione di Indipendenza nella Pennsylvania State House oggi meglio nota come la Independence Hall, dove ogni studente americano mette piede dopo aver sostato davanti alla “Liberty Bell”, la campana che suonò nel primo “Independence Day”, diventando poi un simbolo del movimento contro la schiavitù. Nell’Independence Hall si gettano le fondamenta della Repubblica, esprimendo volontà di indipendenza ed autogoverno che, 11 anni dopo, fanno tornare Philadelphia protagonista per la riunione dei 54 delegati che scrivono la Costituzione, creando un sistema di governo basato sull’equilibrio fra i poteri, federale e statale, e sui diritti fondamentali dei cittadini. L’inizio del XXI secolo passa per il prato di Shanksville, contea di Somerset, dove precipita uno dei quattro aerei commerciali dirottati dai terroristi di Al Qaeda nell’attacco dell’11 settembre 2001. Specchio di una popolazione rurale con- servatrice e urbana liberal, nelle elezioni più recenti la Pennsylvania si è trasformata da roccaforte democratica nello “Stato in bilico” che indovina il Presidente: nel 2008 e nel 2012 premiò Obama, nel 2016 Trump e nel 2020 Biden. E anche oggi la nazione aspetta il suo verdetto. Perché la Storia americana passa per le terre di William Penn.
Pietro Reichlin, La Stampa
La sfida tra Harris e Trump – commenta sulla Stampa Pietro Reichlin – è il laboratorio politico del nuovo millennio e serve a capire l’evoluzione ideologica che subiranno destra e sinistra nelle democrazie occidentali. I temi proposti all’elettorato dai due candidati non sono nuovi, in parte anticipati dalla Brexit e dalla crescita del sovranismo, ma l’impatto delle elezioni americane è gravido di nuovi rischi per l’economia mondiale. Partiamo da una premessa necessaria. Il programma economico di Trump è incoerente e pericoloso, non solo per l’Europa e i paesi emergenti, ma per la stabilità della stessa economia americana. Queste incoerenze sono state denunciate nei giorni scorsi con una lettera aperta di 23 premi Nobel per l’economia. Si può dire, con un certo grado di confidenza, che è difficile trovare qualche economista di fama che approvi le promesse del candidato repubblicano. Trump vuole quattro cose: protezionismo (tariffe al 60% su tutti i prodotti cinesi, al 10% su quelli europei, rinegoziazione del trattato con Messico e Canada), blocco drastico dell’immigrazione (e deportazione di massa degli immigrati illegali), tagli a imposte e spesa sociale (demolizione di “Obama-Care”), ritorno alle energie fossili. Tutte queste misure, fatte in modo intenso e indiscriminato, possono peggiorare il benessere sociale sia in Usa che nel mondo. In altre parole, potrebbe accadere il contrario di ciò che Trump si augura: la riduzione dell’inflazione e la re-industrializzazione. L’aumento delle tariffe doganali potrebbe ridurre di qualche punto percentuale il disavanzo commerciale americano, ma si accompagnerebbe, nel medio-lungo periodo, ad un aumento dei prezzi interni e una perdita del potere di acquisto dei salari. Il blocco all’immigrazione potrebbe creare un eccesso di domanda di manodopera e avere effetti inflazionistici o contenere la dinamica del Pil. Il taglio delle tasse e della spesa pubblica aumenterebbe la povertà e la disuguaglianza dei redditi (già molto elevata), e vanificherebbe l’obiettivo di estendere a tutti i cittadini l’assicurazione sanitaria. Infine, il negazionismo ambientale e il ritorno alle fonti energetiche fossili non farebbe che accelerare il surriscaldamento globale e gli eventi meteorologici estremi.
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