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Il cambio necessario per la pace
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 23/10/2024
Il cambio necessario per la pace
Angelo Panebianco, Corriere della Sera
Come sottolinea sul Corriere della Sera Angelo Panebianco, Israele è l’unico Stato al mondo a costante rischio di distruzione fin dalla sua costituzione nel 1948. Per la sua radicale diversità, culturale e istituzionale, rispetto ai suoi vicini. Ha resistito fin qui grazie all’appoggio americano e alla determinazione degli israeliani. Ciò significa che non ci sarà mai pace in Medio Oriente fin quando Israele non smetterà di sentirsi minacciato nella sua esistenza. Dopo avere neutralizzato a più riprese gli assalti degli arabi(sunniti), dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, ha trovato nell’Iran sciita il suo nemico più determinato. La distruzione di Israele è, fin dall’inizio della loro avventura politica, obiettivo degli Ayatollah. Pertanto, fin quando il regime degli Ayatollah durerà, potranno esserci fra Israele e l’Iran (e i gruppi che l’Iran controlla) tregue più o meno precarie. Ma non potrà mai esserci pace. Gli Accordi di Abramo e, ancor più, i comportamenti degli attori regionali nell’attuale conflitto, lasciano intendere che alcuni dei principali governanti del mondo sunnita siano ormai decisi a una completa normalizzazione dei loro rapporti con Israele. Però la cautela è d’obbligo. Oggi i governanti di quei Paesi temono soprattutto l’Iran. Se, causa un cambiamento di regime, l’Iran cessasse di essere per loro una minaccia, non è detto che non riaffiorerebbe l’antica ostilità per Israele. Forse, se cambierà la natura di certi protagonisti (Iran in testa) si apriranno prospettive nuove in Medio Oriente. Se gli attori presenti in quel momento — tutti, democrazia israeliana compresa — saranno capaci di non sprecare l’occasione (e se le potenze esterne contrarie alla pacificazione dell’area non riusciranno a interferire) si aprirà un processo dalle conclusioni inedite, un cambiamento davvero rivoluzionario: il venir meno della preoccupazione di Israele per la propria sopravvivenza, la sua definitiva accettazione da parte dei principali attori regionali. Se questo accadesse, potrebbe prima o poi verificarsi anche ciò che oggi non appare possibile (e che venne rifiutato dai Paesi arabi nel 1948): la nascita di uno Stato palestinese in grado di vivere pacificamente accanto allo Stato di Israele.
Maurizio Molinari, la Repubblica
A meno di due settimane dal voto sulla Casa Bianca – commenta Maurizio Molinari su Repubblica – il candidato Donald Trump sente di avere il vento a favore e per rafforzarsi sulla rivale Kamala Harris punta su tre settori dell’elettorato più conservatore: uomini bianchi, cristiani e colletti blu. Se dall’indomani della Convention di Chicago la democratica Harris aveva dimostrato di poter recuperare lo svantaggio accumulato da Joe Biden e, grazie al dibattito tv sulla Cnn, di riuscire a imporsi su Trump, adesso la sua popolarità rallenta perché i sondaggi danno in crescita l’ex presidente. Per comprendere quanto sta avvenendo bisogna partire dai dati sui sette Stati in bilico — Arizona, Nevada, Georgia, North Carolina, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin — perché mentre fra i due sfidanti c’è ovunque una parità statistica, in realtà è Trump che recupera terreno, creando una situazione che impone a Harris di conquistare Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Senza tutti e tre, farcela per lei diventa proibitivo. E se nel Blue Wall dei Grandi Laghi i democratici ritengono di potercela fare, la Pennsylvania è il loro più evidente tallone d’Achille. Sono proprio gli Stati in bilico a svelare che se Harris, dopo la Convention, riuscì a far tornare ai democratici circa il 2-3 per cento di liberal che avrebbero votato altri candidati, come la verde Jill Stein, adesso è Trump che incassa un simile fenomeno: il ritorno di elettori potenziali che si credevano perduti. E chi lo aiuta di più ad accelerare negli Stati in bilico — dove in molti casi si è già iniziato a votare — sono i flipper: gli elettori che quattro anni fa votarono per Biden o Trump ed ora hanno scelto di cambiare casacca. Fra i flipper Trump è infatti avanti: in Nevada del 9 per cento, in Michigan del 6 per cento e altrove con numeri minori. È la sfida sui flipper a spiegare perché Harris ha deciso di lanciarsi in una maratona di eventi on the road con Liz Cheney, figlia dell’ex vicepresidente Dick durante l’amministrazione Bush e volto di punta dei repubblicani che rigettano The Donald.
Serena Sileoni, La Stampa
L’affare Albania, scrive sulla Stampa Serena Sileoni, ha acceso un doppio livello di scontro del governo con la magistratura. Uno sano e uno insano. La gestione dei flussi migratori è un cerchio che non si chiude e la difficoltà con cui l’Unione europea e gli Stati membri faticano a trovare la quadra ne è dimostrazione. È un equilibrio pressoché impossibile non solo tra solidarietà e sicurezza, tra i diritti umani e gli interessi dei governi, ma anche tra i diversi e imprevedibili effetti che le migrazioni possono comportare. Su temi così difficili, le istituzioni rivendicano le loro ragioni, ognuna coi propri strumenti. È questo lo scontro sano, di cui le democrazie costantemente si nutrono e con cui evolvono, trasformando le regole dello stare insieme. Il decreto-legge che il governo annuncia di aver approvato in Consiglio dei ministri, al momento, non serve a nulla, se non a richiamare gli elettori liguri alle urne. Dal punto di vista della compatibilità con il diritto europeo vigente, non importa che la lista dei Paesi sicuri sia contenuta in un decreto-legge o in un regolamento ministeriale. Non importa la natura e la veste formale della regola: se c’è un conflitto tra una norma direttamente applicabile dell’Unione europea e una nazionale, prevale la prima e i giudici devono disapplicare la seconda. In uno scontro istituzionale sano, quella che sembra una mossa del tutto scomposta condita da apparenti, grossolani svarioni del governo e del ministro Nordio può assumere una sua razionalità: guadagnare tempo e in- tanto preparare il terreno per arrivare a convincere la Commissione – in questo momento più facilmente convincibile anche solo di un anno fa – che il concetto di Paese sicuro va ridefinito e ampliato. Un decreto-legge, in questo senso, può aiutare. Accanto a questo livello «sano», però, c’è un livello «insano», che è quello che si vede e di cui l’attivismo del governo è solo una parte del tutto. La pubblicazione (parziale) dell’e-mail di Paternello e la ripubblicazione (parziale) di Meloni non tolgono nulla alla inopportunità di ciò che il magistrato ha scritto. Il problema è che la questione della magistratura politicizzata e delle toghe rosse non è mai stata superata. E non lo è stata perché la magistratura come organo costituzionale per prima, con le sue correnti politiche interne, con le sue battaglie a ogni riforma dell’ordinamento giudiziario, con il suo passaggio dalle aule giudiziarie alle campagne elettorali, con il suo esercizio autocratico della prerogativa dell’indipendenza ha perso, da tempo, molta della credibilità che pure buona parte dei giudici, singolarmente presi, meriterebbe di avere.
Come sottolinea sul Corriere della Sera Angelo Panebianco, Israele è l’unico Stato al mondo a costante rischio di distruzione fin dalla sua costituzione nel 1948. Per la sua radicale diversità, culturale e istituzionale, rispetto ai suoi vicini. Ha resistito fin qui grazie all’appoggio americano e alla determinazione degli israeliani. Ciò significa che non ci sarà mai pace in Medio Oriente fin quando Israele non smetterà di sentirsi minacciato nella sua esistenza. Dopo avere neutralizzato a più riprese gli assalti degli arabi(sunniti), dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, ha trovato nell’Iran sciita il suo nemico più determinato. La distruzione di Israele è, fin dall’inizio della loro avventura politica, obiettivo degli Ayatollah. Pertanto, fin quando il regime degli Ayatollah durerà, potranno esserci fra Israele e l’Iran (e i gruppi che l’Iran controlla) tregue più o meno precarie. Ma non potrà mai esserci pace. Gli Accordi di Abramo e, ancor più, i comportamenti degli attori regionali nell’attuale conflitto, lasciano intendere che alcuni dei principali governanti del mondo sunnita siano ormai decisi a una completa normalizzazione dei loro rapporti con Israele. Però la cautela è d’obbligo. Oggi i governanti di quei Paesi temono soprattutto l’Iran. Se, causa un cambiamento di regime, l’Iran cessasse di essere per loro una minaccia, non è detto che non riaffiorerebbe l’antica ostilità per Israele. Forse, se cambierà la natura di certi protagonisti (Iran in testa) si apriranno prospettive nuove in Medio Oriente. Se gli attori presenti in quel momento — tutti, democrazia israeliana compresa — saranno capaci di non sprecare l’occasione (e se le potenze esterne contrarie alla pacificazione dell’area non riusciranno a interferire) si aprirà un processo dalle conclusioni inedite, un cambiamento davvero rivoluzionario: il venir meno della preoccupazione di Israele per la propria sopravvivenza, la sua definitiva accettazione da parte dei principali attori regionali. Se questo accadesse, potrebbe prima o poi verificarsi anche ciò che oggi non appare possibile (e che venne rifiutato dai Paesi arabi nel 1948): la nascita di uno Stato palestinese in grado di vivere pacificamente accanto allo Stato di Israele.
Maurizio Molinari, la Repubblica
A meno di due settimane dal voto sulla Casa Bianca – commenta Maurizio Molinari su Repubblica – il candidato Donald Trump sente di avere il vento a favore e per rafforzarsi sulla rivale Kamala Harris punta su tre settori dell’elettorato più conservatore: uomini bianchi, cristiani e colletti blu. Se dall’indomani della Convention di Chicago la democratica Harris aveva dimostrato di poter recuperare lo svantaggio accumulato da Joe Biden e, grazie al dibattito tv sulla Cnn, di riuscire a imporsi su Trump, adesso la sua popolarità rallenta perché i sondaggi danno in crescita l’ex presidente. Per comprendere quanto sta avvenendo bisogna partire dai dati sui sette Stati in bilico — Arizona, Nevada, Georgia, North Carolina, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin — perché mentre fra i due sfidanti c’è ovunque una parità statistica, in realtà è Trump che recupera terreno, creando una situazione che impone a Harris di conquistare Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Senza tutti e tre, farcela per lei diventa proibitivo. E se nel Blue Wall dei Grandi Laghi i democratici ritengono di potercela fare, la Pennsylvania è il loro più evidente tallone d’Achille. Sono proprio gli Stati in bilico a svelare che se Harris, dopo la Convention, riuscì a far tornare ai democratici circa il 2-3 per cento di liberal che avrebbero votato altri candidati, come la verde Jill Stein, adesso è Trump che incassa un simile fenomeno: il ritorno di elettori potenziali che si credevano perduti. E chi lo aiuta di più ad accelerare negli Stati in bilico — dove in molti casi si è già iniziato a votare — sono i flipper: gli elettori che quattro anni fa votarono per Biden o Trump ed ora hanno scelto di cambiare casacca. Fra i flipper Trump è infatti avanti: in Nevada del 9 per cento, in Michigan del 6 per cento e altrove con numeri minori. È la sfida sui flipper a spiegare perché Harris ha deciso di lanciarsi in una maratona di eventi on the road con Liz Cheney, figlia dell’ex vicepresidente Dick durante l’amministrazione Bush e volto di punta dei repubblicani che rigettano The Donald.
Serena Sileoni, La Stampa
L’affare Albania, scrive sulla Stampa Serena Sileoni, ha acceso un doppio livello di scontro del governo con la magistratura. Uno sano e uno insano. La gestione dei flussi migratori è un cerchio che non si chiude e la difficoltà con cui l’Unione europea e gli Stati membri faticano a trovare la quadra ne è dimostrazione. È un equilibrio pressoché impossibile non solo tra solidarietà e sicurezza, tra i diritti umani e gli interessi dei governi, ma anche tra i diversi e imprevedibili effetti che le migrazioni possono comportare. Su temi così difficili, le istituzioni rivendicano le loro ragioni, ognuna coi propri strumenti. È questo lo scontro sano, di cui le democrazie costantemente si nutrono e con cui evolvono, trasformando le regole dello stare insieme. Il decreto-legge che il governo annuncia di aver approvato in Consiglio dei ministri, al momento, non serve a nulla, se non a richiamare gli elettori liguri alle urne. Dal punto di vista della compatibilità con il diritto europeo vigente, non importa che la lista dei Paesi sicuri sia contenuta in un decreto-legge o in un regolamento ministeriale. Non importa la natura e la veste formale della regola: se c’è un conflitto tra una norma direttamente applicabile dell’Unione europea e una nazionale, prevale la prima e i giudici devono disapplicare la seconda. In uno scontro istituzionale sano, quella che sembra una mossa del tutto scomposta condita da apparenti, grossolani svarioni del governo e del ministro Nordio può assumere una sua razionalità: guadagnare tempo e in- tanto preparare il terreno per arrivare a convincere la Commissione – in questo momento più facilmente convincibile anche solo di un anno fa – che il concetto di Paese sicuro va ridefinito e ampliato. Un decreto-legge, in questo senso, può aiutare. Accanto a questo livello «sano», però, c’è un livello «insano», che è quello che si vede e di cui l’attivismo del governo è solo una parte del tutto. La pubblicazione (parziale) dell’e-mail di Paternello e la ripubblicazione (parziale) di Meloni non tolgono nulla alla inopportunità di ciò che il magistrato ha scritto. Il problema è che la questione della magistratura politicizzata e delle toghe rosse non è mai stata superata. E non lo è stata perché la magistratura come organo costituzionale per prima, con le sue correnti politiche interne, con le sue battaglie a ogni riforma dell’ordinamento giudiziario, con il suo passaggio dalle aule giudiziarie alle campagne elettorali, con il suo esercizio autocratico della prerogativa dell’indipendenza ha perso, da tempo, molta della credibilità che pure buona parte dei giudici, singolarmente presi, meriterebbe di avere.
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