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Il passo inatteso di Netanyahu
Sintesi degli editoriali dei principali giornali
Redazione InPiù 30/09/2024
Il passo inatteso di Netanyahu
Davide Frattini, Corriere della Sera
Un’euforia da Guerra dei Sei giorni – commenta sul Corriere della Sera Davide Frattini – sembra aver conquistato tanti israeliani, anche se i giorni combattuti contro Hamas a Gaza sono ormai 359 e da uno in meno va avanti lo scontro ora totale con l’Hezbollah libanese. Di sicuro ha catturato quelli ai vertici, con i consiglieri di Benjamin Netanyahu che diffondono la foto del primo ministro seduto al telefono «per approvare l’attacco» ad Hassan Nasrallah, mentre la decisione era già stata presa prima della sua partenza per New York dove ha partecipato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Bibi, com’è soprannominato, non ha mai accettato in pubblico la responsabilità per i massacri del 7 ottobre perpetrati dai terroristi palestinesi nel sud di Israele. Non ha invece esitato a prendersi il merito dei raid in sequenza che hanno decapitato i vertici dell’organizzazione libanese, un risultato che pure i critici gli riconoscono: è successo sotto il suo comando. Un osservatore attento come Aluf Benn — direttore del quotidiano “Haaretz”, letto dalla sinistra moderata israeliana — avverte che sarebbe il momento per una soluzione diplomatica: «Abbiamo dimostrato ai nemici che è meglio non prendersela con noi. Adesso scegliamo altre strade». Anche perché l’«anello di fuoco» acceso da Qassem Soleimani, il generale iraniano ucciso dagli americani nel 2020, è ancora infiammato, nonostante abbia perduto con Nasrallah il suo piromane principale. E degli americani Netanyahu ha bisogno per contrastare la possibile rappresaglia massiccia dell’asse sciita manovrato da Teheran. Raccontano che Ali Khamenei nelle prime 48 ore dall’uccisione di Nasrallah sia rimasto sotto choc. Ma dopo averli sorpresi, Netanyahu — confidando negli ultimi mesi di Biden alla Casa Bianca — potrebbe stupirli ancora perseguendo davvero, come ha ribadito all’Onu, il patto di normalizzazione con l’Arabia Saudita, un’intesa che trasformerebbe il Medio Oriente, una mossa che contribuirebbe a sciogliere l’«anello di fuoco» più dell’eliminazione di Nasrallah.
Paolo Garimberti, la Repubblica
Su Repubblica anche Paolo Garimberti commenta la situazione in Medio Oriente dopo l’uccisione di Nasrallah, e sottolinea come ora il grande interrogativo che incombe sulla regione è: che cosa farà l’Iran? Cercare una risposta non è addentrarsi in una selva oscura. Perché il regime degli ayatollah è tutt’altro che ermetico e i segnali non mancano. Anzi. Ma sono contraddittori e finiscono per lambire un terreno molto accidentato: quello del destino della Guida suprema Ali Khamenei. Una cosa è certa, afferma l’editorialista: l’obiettivo che l’Iran ha perseguito in questi anni, quello di un progressivo strangolamento di Israele da parte di una cerchia di alleati guidati, finanziati e armati da Teheran non è stato conseguito. Anzi, si è ritorto contro l’Iran. Il crollo di Hezbollah, il movimento che Teheran ha nutrito per quarant’anni come punta di diamante della sua campagna contro Israele e che ha subito i colpi più pesanti con la morte in rapida successione di due suoi comandanti militari, le migliaia di colpiti nei ranghi intermedi con la trappola dei cercapersone esplosivi e infine con l’uccisione di Nasrallah, è la prova più vistosa del fallimento di questa strategia. E Israele lo ha voluto sottolineare pesantemente ieri attaccando la città portuale di Hodeidah, nello Yemen, inviando un segnale anche agli Houti. Come dire che nessuno dei proxies di Teheran può sentirsi tranquillo. Dunque, i vertici iraniani devono ricalibrare la strategia contro Israele. Ma i segnali che giungono da Teheran sembrano indicare che non c’è accordo su come farlo. Secondo una ricostruzione del New York Times, che scrive di aver avuto come fonti anche due membri dei Guardiani della Rivoluzione, ovviamente anonimi, si è aperta una faglia tra l’ala dura del regime, che vorrebbe una risposta rapida e forte, e l’ala moderata favorevole a prendere tempo ed evitare comunque una reazione diretta da parte iraniana, per il timore di scatenare una guerra regionale, che l’Iran, con un’economia a pezzi e una società in fermento per la brutalità con cui il governo reprime il dissenso, non può permettersi perché il regime degli ayatollah potrebbe uscirne stritolato. E in fondo a questa faglia si intravede uno scenario di lotta di potere, che potrebbe toccare anche la questione della successione di Ali Khamenei.
Edward N. Luttwak, Il Giornale
Come ricorda a sua volta sul Giornale Edward N. Luttwak, tutte le milizie sciite allevate e dirette dall’Iran che attaccano quotidianamente il territorio israeliano con droni, razzi e missili armati, vale a dire Hezbollah, «l'esercito di Allah» in Libano e in Siria, ma anche il Kataib Hizbullah Asaib Ahl al-Haqq e l'Haraka Hizbullah al-Nujaba in Irak, così come gli Houthi dello Yemen, dipendono interamente dall'Iran per la fornitura di armi e per la maggior parte dei loro finanziamenti. Il flusso di dollari che sostiene i nemici di Israele, dall’ormai decapitato Hezbollah libanese ai suoi equivalenti siriani e iracheni, fino agli Houthi che hanno efficacemente messo a nudo l’impotenza europea nel proteggere la migliore rotta commerciale dell’Europa da e verso il Golfo, l'Africa orientale e tutta l'Asia, proviene quasi interamente dalle esportazioni di petrolio imbarcate sulle navi cisterna del terminale iraniano per l'esportazione di petrolio di Khark Island, proprio al largo della costa iraniana. Il 27 settembre, nel suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu, Netanyahu ha avvertito i governanti iraniani che il «lungo braccio» di Israele può raggiungere anche loro, ma non è necessario che sia così lungo da raggiungere il molo di carico di Khark, nel Golfo Persico, che per altro si trova a solo 1.516 chilometri dalla principale base aerea di Israele, molto più vicino del terminale di importazione del petrolio degli Houthi a Hodeida, nello Yemen, che è stato interamente distrutto dai jet israeliani e che si trova a 2.081 chilometri dalla base già citata. L'Iran ha compiuto grandi sforzi per ridurre la sua dipendenza dal terminale dell'isola di Khark, nella parte superiore del Golfo Persico, non perché sia troppo vicino a Israele, ma perché era troppo vicino all'Irak, tanto da venire attaccato e bruciato durante la guerra Iran-Irak. Il risultato di questi costosi sforzi è il terminale petrolifero di Jask, inaugurato di recente, che si trova molto più lontano da Israele, nell'Oceano Indiano, ben oltre il Golfo Persico. Per i pianificatori aerei israeliani, però, nemmeno questo è un problema, perché il petrolio arriva a Jask tramite oleodotti che possono essere intercettati in qualsiasi punto perfino più vicino di Khark.
Un’euforia da Guerra dei Sei giorni – commenta sul Corriere della Sera Davide Frattini – sembra aver conquistato tanti israeliani, anche se i giorni combattuti contro Hamas a Gaza sono ormai 359 e da uno in meno va avanti lo scontro ora totale con l’Hezbollah libanese. Di sicuro ha catturato quelli ai vertici, con i consiglieri di Benjamin Netanyahu che diffondono la foto del primo ministro seduto al telefono «per approvare l’attacco» ad Hassan Nasrallah, mentre la decisione era già stata presa prima della sua partenza per New York dove ha partecipato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Bibi, com’è soprannominato, non ha mai accettato in pubblico la responsabilità per i massacri del 7 ottobre perpetrati dai terroristi palestinesi nel sud di Israele. Non ha invece esitato a prendersi il merito dei raid in sequenza che hanno decapitato i vertici dell’organizzazione libanese, un risultato che pure i critici gli riconoscono: è successo sotto il suo comando. Un osservatore attento come Aluf Benn — direttore del quotidiano “Haaretz”, letto dalla sinistra moderata israeliana — avverte che sarebbe il momento per una soluzione diplomatica: «Abbiamo dimostrato ai nemici che è meglio non prendersela con noi. Adesso scegliamo altre strade». Anche perché l’«anello di fuoco» acceso da Qassem Soleimani, il generale iraniano ucciso dagli americani nel 2020, è ancora infiammato, nonostante abbia perduto con Nasrallah il suo piromane principale. E degli americani Netanyahu ha bisogno per contrastare la possibile rappresaglia massiccia dell’asse sciita manovrato da Teheran. Raccontano che Ali Khamenei nelle prime 48 ore dall’uccisione di Nasrallah sia rimasto sotto choc. Ma dopo averli sorpresi, Netanyahu — confidando negli ultimi mesi di Biden alla Casa Bianca — potrebbe stupirli ancora perseguendo davvero, come ha ribadito all’Onu, il patto di normalizzazione con l’Arabia Saudita, un’intesa che trasformerebbe il Medio Oriente, una mossa che contribuirebbe a sciogliere l’«anello di fuoco» più dell’eliminazione di Nasrallah.
Paolo Garimberti, la Repubblica
Su Repubblica anche Paolo Garimberti commenta la situazione in Medio Oriente dopo l’uccisione di Nasrallah, e sottolinea come ora il grande interrogativo che incombe sulla regione è: che cosa farà l’Iran? Cercare una risposta non è addentrarsi in una selva oscura. Perché il regime degli ayatollah è tutt’altro che ermetico e i segnali non mancano. Anzi. Ma sono contraddittori e finiscono per lambire un terreno molto accidentato: quello del destino della Guida suprema Ali Khamenei. Una cosa è certa, afferma l’editorialista: l’obiettivo che l’Iran ha perseguito in questi anni, quello di un progressivo strangolamento di Israele da parte di una cerchia di alleati guidati, finanziati e armati da Teheran non è stato conseguito. Anzi, si è ritorto contro l’Iran. Il crollo di Hezbollah, il movimento che Teheran ha nutrito per quarant’anni come punta di diamante della sua campagna contro Israele e che ha subito i colpi più pesanti con la morte in rapida successione di due suoi comandanti militari, le migliaia di colpiti nei ranghi intermedi con la trappola dei cercapersone esplosivi e infine con l’uccisione di Nasrallah, è la prova più vistosa del fallimento di questa strategia. E Israele lo ha voluto sottolineare pesantemente ieri attaccando la città portuale di Hodeidah, nello Yemen, inviando un segnale anche agli Houti. Come dire che nessuno dei proxies di Teheran può sentirsi tranquillo. Dunque, i vertici iraniani devono ricalibrare la strategia contro Israele. Ma i segnali che giungono da Teheran sembrano indicare che non c’è accordo su come farlo. Secondo una ricostruzione del New York Times, che scrive di aver avuto come fonti anche due membri dei Guardiani della Rivoluzione, ovviamente anonimi, si è aperta una faglia tra l’ala dura del regime, che vorrebbe una risposta rapida e forte, e l’ala moderata favorevole a prendere tempo ed evitare comunque una reazione diretta da parte iraniana, per il timore di scatenare una guerra regionale, che l’Iran, con un’economia a pezzi e una società in fermento per la brutalità con cui il governo reprime il dissenso, non può permettersi perché il regime degli ayatollah potrebbe uscirne stritolato. E in fondo a questa faglia si intravede uno scenario di lotta di potere, che potrebbe toccare anche la questione della successione di Ali Khamenei.
Edward N. Luttwak, Il Giornale
Come ricorda a sua volta sul Giornale Edward N. Luttwak, tutte le milizie sciite allevate e dirette dall’Iran che attaccano quotidianamente il territorio israeliano con droni, razzi e missili armati, vale a dire Hezbollah, «l'esercito di Allah» in Libano e in Siria, ma anche il Kataib Hizbullah Asaib Ahl al-Haqq e l'Haraka Hizbullah al-Nujaba in Irak, così come gli Houthi dello Yemen, dipendono interamente dall'Iran per la fornitura di armi e per la maggior parte dei loro finanziamenti. Il flusso di dollari che sostiene i nemici di Israele, dall’ormai decapitato Hezbollah libanese ai suoi equivalenti siriani e iracheni, fino agli Houthi che hanno efficacemente messo a nudo l’impotenza europea nel proteggere la migliore rotta commerciale dell’Europa da e verso il Golfo, l'Africa orientale e tutta l'Asia, proviene quasi interamente dalle esportazioni di petrolio imbarcate sulle navi cisterna del terminale iraniano per l'esportazione di petrolio di Khark Island, proprio al largo della costa iraniana. Il 27 settembre, nel suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu, Netanyahu ha avvertito i governanti iraniani che il «lungo braccio» di Israele può raggiungere anche loro, ma non è necessario che sia così lungo da raggiungere il molo di carico di Khark, nel Golfo Persico, che per altro si trova a solo 1.516 chilometri dalla principale base aerea di Israele, molto più vicino del terminale di importazione del petrolio degli Houthi a Hodeida, nello Yemen, che è stato interamente distrutto dai jet israeliani e che si trova a 2.081 chilometri dalla base già citata. L'Iran ha compiuto grandi sforzi per ridurre la sua dipendenza dal terminale dell'isola di Khark, nella parte superiore del Golfo Persico, non perché sia troppo vicino a Israele, ma perché era troppo vicino all'Irak, tanto da venire attaccato e bruciato durante la guerra Iran-Irak. Il risultato di questi costosi sforzi è il terminale petrolifero di Jask, inaugurato di recente, che si trova molto più lontano da Israele, nell'Oceano Indiano, ben oltre il Golfo Persico. Per i pianificatori aerei israeliani, però, nemmeno questo è un problema, perché il petrolio arriva a Jask tramite oleodotti che possono essere intercettati in qualsiasi punto perfino più vicino di Khark.
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