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Speedy-referendum, un'arma a doppio taglio
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 26/09/2024
Speedy-referendum, un'arma a doppio taglio
Antonio Polito, Corriere della Sera
Se si possono raccogliere le firme per un referendum come si fa con le petizioni online o con i like sui social, è un bene o un male per la democrazia? È la domanda che si pone sul Corriere della Sera Antonio Polito. All’apparenza – osserva – sembrerebbe senza ombra di dubbio un bene. Il sistema digitale, utilizzato per la prima volta con successo dai promotori del referendum per dimezzare i tempi della cittadinanza agli stranieri residenti, è certamente più pratico e semplice di prima, quando le 500 mila firme andavano apposte davanti a un notaio, un cancelliere o un segretario comunale. Costava fatica e sudore, e molte volte i promotori non ce l’hanno fatta. Da poche settimane basta invece andare su una piattaforma digitale offerta dal ministero della Giustizia. E infatti per questo primo esperimento di «referendum-speedy gonzales» negli ultimi due giorni le firme sono piovute al sorprendente ritmo di diecimila all’ora. Ma cinquecentomila è pur sempre una piccola minoranza. Anche più piccola di quanto avrebbe rappresentato lo stesso numero di firme se raccolto ai banchetti alla vecchia maniera: ogni adesione richiedeva infatti allora un tale impegno da valerne tre o quattro di quelle di oggi. Quindi l’asticella per i promotori di referendum si è abbassata di molto. E se oggi festeggia la sinistra, domani potrebbe dolersene. Niente impedirebbe, per esempio, ai seguaci di Vannacci (manco a farlo apposta cinquecentomila preferenze alle europee) di indire un giorno un proprio referendum per allungare invece i tempi della cittadinanza, o magari negarla addirittura a persone che a loro giudizio non rappresentassero somaticamente il fenotipo italiano. Voglio dire che se si comincia così, se si può così facilmente mobilitare l’opinione pubblica, guidando per almeno qualche giorno il dibattito politico, si attribuisce a piccole minoranze attive un potere troppo grande.
Alberto D’Argenio, la Repubblica
Su Repubblica Alberto D’Argenio commenta il discorso di Erdogan all’Onu, un manifesto contro l’Occidente. Dal palco del Palazzo di Vetro Erdogan ha parlato dopo Joe Biden e ha presentato una visione del mondo e del futuro antitetica a quella del presidente Usa, fondata sui valori democratici e del multilateralismo. Erdogan ha usato il palco dell’Onu e le crisi in corso per ergersi a paladino del mondo musulmano. È tornato a paragonare Netanyahu a Hitler per ingraziarsi le folle domestiche. Ha incolato le democrazie del «genocidio» a Gaza, affermando che nella Striscia «sono morti i valori Occidentali». Ma seppur per interesse politico ne attacca il premier, evita di rompere con Israele in quanto Paese («non abbiamo nessun problema con il popolo israeliano») e parla di soluzioni ai problemi globali all’interno di Onu, G20, Cop e altre istituzioni che dunque non vuole smontare. Ma nelle quali vuole più spazio. Ha citato l’Ungheria di Orbán e la Cina, ha incassato dalla Russia il ruolo di mediatore in Siria, alludendo però ai Brics solo di sfuggita, nonostante ne abbia chiesto l’adesione, in chiave anti occidentale, e a ottobre sarà ospite del loro vertice a Kazan. Dunque quella della diserzione dalla Nato e dai suoi valori viene usata come mera clava negoziale per ottenere ciò che vuole da Europa e Stati Uniti. Come lo stop al bando all’import delle armi i Turchia, i visti Ue per i turchi e l’Unione doganale con Bruxelles. E nell’intento di cavalcare i due mondi per trarne profitto, il Sultano non cita la diffidenza con la quale viene visto dagli stessi russi e cinesi e la dipendenza dall’economia europea e dall’energia di Putin. Insomma, leader del Sud Globale per un giorno, Erdogan ne incarna le contraddizioni e l’assenza di una chiara direzione politica condivisa. Come d’altra parte i sovranisti d’Occidente, che si azzuffano per momentanei vantaggi con quelli che dovrebbero essere i loro partner naturali.
Mario Ajello, Il Messaggero
In vista del primo anniversario della strage del 7 ottobre che ha incendiato il mondo, sul Messaggero Mario Ajello invita a ripartire dai valori dell’Occidente. Per chi vive in questa parte del mondo, scrive, c’è da capire di quale complessiva difficoltà o decadenza soffre l’Occidente e quale potrà essere il percorso di risalita. Perché guai a credere nel catastrofismo da cultura woke, per cui noi siamo i peggiori e tutto il male che abbiamo storicamente fatto (male? Dare progresso al mondo, come il mondo non può che riconoscerci, è stato un male?) e attenzione a non cedere al dilagante senso di colpevolizzazione che ci infliggiamo e non ci meritiamo del tutto. Un Occidente del disarmo di energie mentali e del non orgoglio in se stesso è l’Occidente che si condanna a venire surclassato nell’epoca del multipolarismo e della crescita economica e geopolitica dell’Oriente. Se l’Occidente ha avuto la sua centralità nella storia, e può averla anche nella contemporaneità, è perché ha agito sulla base della forza del sapere e del pensiero, prima ancora che su quella delle armi. E allora, i valori della libertà e dell’assoluto rispetto laico dei diritti delle persone, i principi della democrazia, la cultura dell’accoglienza ma nella legge come occasione di rafforzamento demografico, economico, intellettuale, l’idea di un Occidente che si spende (per se stesso e per gli altri) e non si espande, che si pone in posizione cooperativa e insieme sanamente competitiva con il resto del pianeta: ecco le prerogative che possono diventare il cuore nuovo di una civiltà antichissima che ha tutte le ragioni di credere in se stessa. L’Occidente dato tante volte per morto ha insomma la possibilità di dire a tutti che questa notizia del trapasso è molto ma molto prematura. Riappropriarsi del valore di ciò che siamo stati e che siamo è una chiave di svolta. E un Occidente più consapevole culturalmente e più forte economicamente è anche quello che può meglio svolgere quel ruolo di mediazione che gli è connaturato, nonostante la crisi del multilateralismo e dell’Onu.
Se si possono raccogliere le firme per un referendum come si fa con le petizioni online o con i like sui social, è un bene o un male per la democrazia? È la domanda che si pone sul Corriere della Sera Antonio Polito. All’apparenza – osserva – sembrerebbe senza ombra di dubbio un bene. Il sistema digitale, utilizzato per la prima volta con successo dai promotori del referendum per dimezzare i tempi della cittadinanza agli stranieri residenti, è certamente più pratico e semplice di prima, quando le 500 mila firme andavano apposte davanti a un notaio, un cancelliere o un segretario comunale. Costava fatica e sudore, e molte volte i promotori non ce l’hanno fatta. Da poche settimane basta invece andare su una piattaforma digitale offerta dal ministero della Giustizia. E infatti per questo primo esperimento di «referendum-speedy gonzales» negli ultimi due giorni le firme sono piovute al sorprendente ritmo di diecimila all’ora. Ma cinquecentomila è pur sempre una piccola minoranza. Anche più piccola di quanto avrebbe rappresentato lo stesso numero di firme se raccolto ai banchetti alla vecchia maniera: ogni adesione richiedeva infatti allora un tale impegno da valerne tre o quattro di quelle di oggi. Quindi l’asticella per i promotori di referendum si è abbassata di molto. E se oggi festeggia la sinistra, domani potrebbe dolersene. Niente impedirebbe, per esempio, ai seguaci di Vannacci (manco a farlo apposta cinquecentomila preferenze alle europee) di indire un giorno un proprio referendum per allungare invece i tempi della cittadinanza, o magari negarla addirittura a persone che a loro giudizio non rappresentassero somaticamente il fenotipo italiano. Voglio dire che se si comincia così, se si può così facilmente mobilitare l’opinione pubblica, guidando per almeno qualche giorno il dibattito politico, si attribuisce a piccole minoranze attive un potere troppo grande.
Alberto D’Argenio, la Repubblica
Su Repubblica Alberto D’Argenio commenta il discorso di Erdogan all’Onu, un manifesto contro l’Occidente. Dal palco del Palazzo di Vetro Erdogan ha parlato dopo Joe Biden e ha presentato una visione del mondo e del futuro antitetica a quella del presidente Usa, fondata sui valori democratici e del multilateralismo. Erdogan ha usato il palco dell’Onu e le crisi in corso per ergersi a paladino del mondo musulmano. È tornato a paragonare Netanyahu a Hitler per ingraziarsi le folle domestiche. Ha incolato le democrazie del «genocidio» a Gaza, affermando che nella Striscia «sono morti i valori Occidentali». Ma seppur per interesse politico ne attacca il premier, evita di rompere con Israele in quanto Paese («non abbiamo nessun problema con il popolo israeliano») e parla di soluzioni ai problemi globali all’interno di Onu, G20, Cop e altre istituzioni che dunque non vuole smontare. Ma nelle quali vuole più spazio. Ha citato l’Ungheria di Orbán e la Cina, ha incassato dalla Russia il ruolo di mediatore in Siria, alludendo però ai Brics solo di sfuggita, nonostante ne abbia chiesto l’adesione, in chiave anti occidentale, e a ottobre sarà ospite del loro vertice a Kazan. Dunque quella della diserzione dalla Nato e dai suoi valori viene usata come mera clava negoziale per ottenere ciò che vuole da Europa e Stati Uniti. Come lo stop al bando all’import delle armi i Turchia, i visti Ue per i turchi e l’Unione doganale con Bruxelles. E nell’intento di cavalcare i due mondi per trarne profitto, il Sultano non cita la diffidenza con la quale viene visto dagli stessi russi e cinesi e la dipendenza dall’economia europea e dall’energia di Putin. Insomma, leader del Sud Globale per un giorno, Erdogan ne incarna le contraddizioni e l’assenza di una chiara direzione politica condivisa. Come d’altra parte i sovranisti d’Occidente, che si azzuffano per momentanei vantaggi con quelli che dovrebbero essere i loro partner naturali.
Mario Ajello, Il Messaggero
In vista del primo anniversario della strage del 7 ottobre che ha incendiato il mondo, sul Messaggero Mario Ajello invita a ripartire dai valori dell’Occidente. Per chi vive in questa parte del mondo, scrive, c’è da capire di quale complessiva difficoltà o decadenza soffre l’Occidente e quale potrà essere il percorso di risalita. Perché guai a credere nel catastrofismo da cultura woke, per cui noi siamo i peggiori e tutto il male che abbiamo storicamente fatto (male? Dare progresso al mondo, come il mondo non può che riconoscerci, è stato un male?) e attenzione a non cedere al dilagante senso di colpevolizzazione che ci infliggiamo e non ci meritiamo del tutto. Un Occidente del disarmo di energie mentali e del non orgoglio in se stesso è l’Occidente che si condanna a venire surclassato nell’epoca del multipolarismo e della crescita economica e geopolitica dell’Oriente. Se l’Occidente ha avuto la sua centralità nella storia, e può averla anche nella contemporaneità, è perché ha agito sulla base della forza del sapere e del pensiero, prima ancora che su quella delle armi. E allora, i valori della libertà e dell’assoluto rispetto laico dei diritti delle persone, i principi della democrazia, la cultura dell’accoglienza ma nella legge come occasione di rafforzamento demografico, economico, intellettuale, l’idea di un Occidente che si spende (per se stesso e per gli altri) e non si espande, che si pone in posizione cooperativa e insieme sanamente competitiva con il resto del pianeta: ecco le prerogative che possono diventare il cuore nuovo di una civiltà antichissima che ha tutte le ragioni di credere in se stessa. L’Occidente dato tante volte per morto ha insomma la possibilità di dire a tutti che questa notizia del trapasso è molto ma molto prematura. Riappropriarsi del valore di ciò che siamo stati e che siamo è una chiave di svolta. E un Occidente più consapevole culturalmente e più forte economicamente è anche quello che può meglio svolgere quel ruolo di mediazione che gli è connaturato, nonostante la crisi del multilateralismo e dell’Onu.
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