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Un'Europa poco bancaria
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 24/09/2024
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Federico Fubini, Corriere della Sera
Federico Fubini sul Corriere della Sera parla di ‘un’Europa poco bancaria’: “La zona euro – osserva l’editorialista - è la terza economia al mondo e la Germania, da sola, la quarta. Però se si guarda alle banche non si direbbe. Non compaiono istituti europei fra i primi dieci al mondo per valore di mercato. Se poi si allarga alle prime venticinque anche lì dell’area euro neanche l’ombra. Era inevitabile: fra l’avere banche e aziende più grandi, più produttive, più capaci e propense all’innovazione, oppure il mantenere feudi nazionali più limitati ma autonomi — i governi europei hanno scelto da tempo il secondo. Se però poi si restringe la classifica alle prime dieci banche dell’area dell’euro, la più grande della Germania è in ultima posizione: e non si tratta di Commerzbank, ma di Deutsche Bank. E per carità, il mercato non ha sempre ragione. Spesso si sbaglia, ma qualcosa starà pur cercando di dirci. Ci dice che esiste una questione tedesca all’interno di una più generale questione europea. Per restare all’industria del credito – scrive Fubini - assistiamo a una tardiva presa d’atto di quel che è accaduto nell’ultima dozzina di anni. Perché mentre l’Italia, la Spagna o l’Irlanda dopo la crisi finanziaria hanno ristrutturato i loro sistemi bancari — volenti o nolenti — la Germania non è mai stata spinta a farlo dalle autorità europee. Il risultato è che la seconda banca, Commerzbank, è nelle cure della mano pubblica nientemeno che da sedici anni (indisturbata dai regolatori) mentre la prima banca, Deutsche, è così debole che non può correrle in soccorso da mire «straniere». Una lezione è che non conviene a nessuno in Europa considerarsi al di sopra delle regole. E certo l’Italia oggi sarebbe più credibile nel chiedere che si lasci funzionare l’Unione bancaria nell’area euro, se a Roma si fosse ratificato il Meccanismo europeo di stabilità con la sua rete di sicurezza per l’industria del credito. Ma i problemi della Germania, così emblematici di quelli della zona euro, vanno oltre le banche. Da due anni il Paese non cresce e sembra di nuovo in recessione. Quel che deve cambiare – conclude - è l’approccio, in senso europeo”.
Alberto D’Argenio, la Repubblica
“Un unico palco globale, due mondi che ormai faticano a convivere sullo stesso globo”. Alberto D’Argenio su Repubblica parla delle ‘due visioni del mondo emerse all’Onu: “Joe Biden all’ultimo — applauditissimo — discorso alle Nazioni Unite usa la sua storia personale per incarnare i valori democratici e del multilateralismo, eredità della sua novecentesca carriera politica. Il turco Recep Tayyip Erdogan, che in Assemblea Generale parla subito dopo, usa il corpo, strumento tipico degli autocrati, per squadernare una visione opposta dei valori e del futuro. La differenza tra i due mondi parte dai valori, ma in realtà è di potere. Erdogan usa il palco dell’Onu e le crisi in corso per ergersi a paladino del mondo musulmano e, allargando lo sguardo, prova a farsi portavoce del Sud Globale, del mondo che si dichiara escluso dai grandi giochi (curioso, visto che Cina e Russia sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dispongono di infinite leve politiche). Ma dietro la sberluccicante veste del Sultano — fatta di parole forti — si nascondono tutte le contraddizioni di autocrazie e sovranismi. Il Rais di Ankara – scrive D’Argenio - torna a paragonare Netanyahu a Hitler per ingraziarsi le folle domestiche. Incolpa le democrazie del «genocidio» a Gaza, affermando che nella Striscia «sono morti i valori Occidentali». Ma seppur per interesse politico ne attacca il premier, evita di rompere con Israele in quanto Paese («non abbiamo nessun problema con il popolo israeliano») e parla di soluzioni ai problemi globali all’interno di Onu, G20, Cop e altre istituzioni che dunque non vuole smontare. Ma nelle quali vuole più spazio. Cita l’Ungheria di Orbán e la Cina, incassa dalla Russia il ruolo di mediatore in Siria, ma allude ai Brics solo di sfuggita, nonostante ne abbia chiesto l’adesione, in chiave anti occidentale, e a ottobre sarà ospite del loro vertice a Kazan. Dunque quella della diserzione dalla Nato e dai suoi valori viene usata come mera clava negoziale per ottenere ciò che vuole da Europa e Stati Uniti. Come lo stop al bando all’import delle armi i Turchia, i visti Ue per i turchi e l’Unione doganale con Bruxelles. Insomma, leader del Sud Globale per un giorno, Erdogan ne incarna le contraddizioni e l’assenza di una chiara direzione politica condivisa. Come d’altra parte i sovranisti d’Occidente – conclude - che si azzuffano per momentanei vantaggi con quelli che dovrebbero essere i loro partner naturali”.
Stefano Lepri, La Stampa
Stefano Lepri sulla Stampa parla della (scarsa) efficacia delle Nazioni Unite: “Questa impotenza dell’Onu – scrive l’editorialista - discende non solo dall’intrattabilità dei conflitti ma anche dalla convinzione dei leader partecipanti all’Assemblea Generale che non ci siano spazi per fare efficacemente diplomazia. I maggiori protagonisti che poi sono sempre i soliti, Usa, Russia, Cina, più gli attori regionali – con tutta la buona volontà all’Europa e agli europei si può riconoscere un ruolo importante sull’Ucraina, ma marginale in Medio Oriente – rinunciano anche a provarci. Quest’anno l’attenuante è l’incognita legata alle elezioni Usa, ma resta il fatto che da New York non sono attesi progressi né sull’Ucraina né sulle guerre di Israele. Sarebbe ingiusto e inesatto prendersela con l’Onu, o con il Segretario generale, António Guterres, o con i faragginosi (indubbiamente) meccanismi societari, per i grossi limiti che incontrano le Nazioni Unite. È la comunità internazionale – noi – che glieli impone. In un clima internazionale dominato dalla competizione, e dallo scontro aperto, fra grandi e medie potenze – osserva Stefanini - l’Onu non può funzionare come camera di compensazione geopolitica. Ci vuole la volontà dei principali, e non solo, attori di trovare compromessi alle loro divergenze. Questo è evidente nell’uso del veto da parte dei P5 (i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto, ndr) ma il veto è effetto, non causa, del dissenso internazionale. È una questione di volontà politica non di riforme tecniche. Le Nazioni Unite restano quello che sono sempre state: uno specchio della realtà internazionale. Continuano a offrire spiragli negoziali, pur sottoutilizzati. Se non mettono fine alle guerre, svolgono però un ruolo indispensabile nelle le crisi fisiologiche e globali nel mondo: carestie e deficit alimentare di intere regioni e popolazioni (Pam), rifugiati (Unhcr), pandemie (Oms), assistenza all’infanzia e agli strati vulnerabili (Unicef), e la lista potrebbe continuare. Alle Nazioni Unite, tramite il meccanismo pur convoluto dei Cop, è affidata la risposta alla sfida principale che l’umanità sta affrontando oggi: i cambiamenti climatici. Prima o poi, speriamo prima, le guerre finiranno, «l’effetto serra» e le sue conseguenze no. A meno di mettere in atto il programma (Onu) della conferenza di Parigi del 2015. Teniamoci strette le Nazioni Unite. Senza illusioni, ma teniamocele strette”.
Federico Fubini sul Corriere della Sera parla di ‘un’Europa poco bancaria’: “La zona euro – osserva l’editorialista - è la terza economia al mondo e la Germania, da sola, la quarta. Però se si guarda alle banche non si direbbe. Non compaiono istituti europei fra i primi dieci al mondo per valore di mercato. Se poi si allarga alle prime venticinque anche lì dell’area euro neanche l’ombra. Era inevitabile: fra l’avere banche e aziende più grandi, più produttive, più capaci e propense all’innovazione, oppure il mantenere feudi nazionali più limitati ma autonomi — i governi europei hanno scelto da tempo il secondo. Se però poi si restringe la classifica alle prime dieci banche dell’area dell’euro, la più grande della Germania è in ultima posizione: e non si tratta di Commerzbank, ma di Deutsche Bank. E per carità, il mercato non ha sempre ragione. Spesso si sbaglia, ma qualcosa starà pur cercando di dirci. Ci dice che esiste una questione tedesca all’interno di una più generale questione europea. Per restare all’industria del credito – scrive Fubini - assistiamo a una tardiva presa d’atto di quel che è accaduto nell’ultima dozzina di anni. Perché mentre l’Italia, la Spagna o l’Irlanda dopo la crisi finanziaria hanno ristrutturato i loro sistemi bancari — volenti o nolenti — la Germania non è mai stata spinta a farlo dalle autorità europee. Il risultato è che la seconda banca, Commerzbank, è nelle cure della mano pubblica nientemeno che da sedici anni (indisturbata dai regolatori) mentre la prima banca, Deutsche, è così debole che non può correrle in soccorso da mire «straniere». Una lezione è che non conviene a nessuno in Europa considerarsi al di sopra delle regole. E certo l’Italia oggi sarebbe più credibile nel chiedere che si lasci funzionare l’Unione bancaria nell’area euro, se a Roma si fosse ratificato il Meccanismo europeo di stabilità con la sua rete di sicurezza per l’industria del credito. Ma i problemi della Germania, così emblematici di quelli della zona euro, vanno oltre le banche. Da due anni il Paese non cresce e sembra di nuovo in recessione. Quel che deve cambiare – conclude - è l’approccio, in senso europeo”.
Alberto D’Argenio, la Repubblica
“Un unico palco globale, due mondi che ormai faticano a convivere sullo stesso globo”. Alberto D’Argenio su Repubblica parla delle ‘due visioni del mondo emerse all’Onu: “Joe Biden all’ultimo — applauditissimo — discorso alle Nazioni Unite usa la sua storia personale per incarnare i valori democratici e del multilateralismo, eredità della sua novecentesca carriera politica. Il turco Recep Tayyip Erdogan, che in Assemblea Generale parla subito dopo, usa il corpo, strumento tipico degli autocrati, per squadernare una visione opposta dei valori e del futuro. La differenza tra i due mondi parte dai valori, ma in realtà è di potere. Erdogan usa il palco dell’Onu e le crisi in corso per ergersi a paladino del mondo musulmano e, allargando lo sguardo, prova a farsi portavoce del Sud Globale, del mondo che si dichiara escluso dai grandi giochi (curioso, visto che Cina e Russia sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dispongono di infinite leve politiche). Ma dietro la sberluccicante veste del Sultano — fatta di parole forti — si nascondono tutte le contraddizioni di autocrazie e sovranismi. Il Rais di Ankara – scrive D’Argenio - torna a paragonare Netanyahu a Hitler per ingraziarsi le folle domestiche. Incolpa le democrazie del «genocidio» a Gaza, affermando che nella Striscia «sono morti i valori Occidentali». Ma seppur per interesse politico ne attacca il premier, evita di rompere con Israele in quanto Paese («non abbiamo nessun problema con il popolo israeliano») e parla di soluzioni ai problemi globali all’interno di Onu, G20, Cop e altre istituzioni che dunque non vuole smontare. Ma nelle quali vuole più spazio. Cita l’Ungheria di Orbán e la Cina, incassa dalla Russia il ruolo di mediatore in Siria, ma allude ai Brics solo di sfuggita, nonostante ne abbia chiesto l’adesione, in chiave anti occidentale, e a ottobre sarà ospite del loro vertice a Kazan. Dunque quella della diserzione dalla Nato e dai suoi valori viene usata come mera clava negoziale per ottenere ciò che vuole da Europa e Stati Uniti. Come lo stop al bando all’import delle armi i Turchia, i visti Ue per i turchi e l’Unione doganale con Bruxelles. Insomma, leader del Sud Globale per un giorno, Erdogan ne incarna le contraddizioni e l’assenza di una chiara direzione politica condivisa. Come d’altra parte i sovranisti d’Occidente – conclude - che si azzuffano per momentanei vantaggi con quelli che dovrebbero essere i loro partner naturali”.
Stefano Lepri, La Stampa
Stefano Lepri sulla Stampa parla della (scarsa) efficacia delle Nazioni Unite: “Questa impotenza dell’Onu – scrive l’editorialista - discende non solo dall’intrattabilità dei conflitti ma anche dalla convinzione dei leader partecipanti all’Assemblea Generale che non ci siano spazi per fare efficacemente diplomazia. I maggiori protagonisti che poi sono sempre i soliti, Usa, Russia, Cina, più gli attori regionali – con tutta la buona volontà all’Europa e agli europei si può riconoscere un ruolo importante sull’Ucraina, ma marginale in Medio Oriente – rinunciano anche a provarci. Quest’anno l’attenuante è l’incognita legata alle elezioni Usa, ma resta il fatto che da New York non sono attesi progressi né sull’Ucraina né sulle guerre di Israele. Sarebbe ingiusto e inesatto prendersela con l’Onu, o con il Segretario generale, António Guterres, o con i faragginosi (indubbiamente) meccanismi societari, per i grossi limiti che incontrano le Nazioni Unite. È la comunità internazionale – noi – che glieli impone. In un clima internazionale dominato dalla competizione, e dallo scontro aperto, fra grandi e medie potenze – osserva Stefanini - l’Onu non può funzionare come camera di compensazione geopolitica. Ci vuole la volontà dei principali, e non solo, attori di trovare compromessi alle loro divergenze. Questo è evidente nell’uso del veto da parte dei P5 (i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto, ndr) ma il veto è effetto, non causa, del dissenso internazionale. È una questione di volontà politica non di riforme tecniche. Le Nazioni Unite restano quello che sono sempre state: uno specchio della realtà internazionale. Continuano a offrire spiragli negoziali, pur sottoutilizzati. Se non mettono fine alle guerre, svolgono però un ruolo indispensabile nelle le crisi fisiologiche e globali nel mondo: carestie e deficit alimentare di intere regioni e popolazioni (Pam), rifugiati (Unhcr), pandemie (Oms), assistenza all’infanzia e agli strati vulnerabili (Unicef), e la lista potrebbe continuare. Alle Nazioni Unite, tramite il meccanismo pur convoluto dei Cop, è affidata la risposta alla sfida principale che l’umanità sta affrontando oggi: i cambiamenti climatici. Prima o poi, speriamo prima, le guerre finiranno, «l’effetto serra» e le sue conseguenze no. A meno di mettere in atto il programma (Onu) della conferenza di Parigi del 2015. Teniamoci strette le Nazioni Unite. Senza illusioni, ma teniamocele strette”.
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