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Le nostre ambiguità su Kiev

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 09/09/2024

Le nostre ambiguità su Kiev Le nostre ambiguità su Kiev Paolo Mieli, Corriere della Sera
Sul Corriere della Sera Paolo Mieli evidenzia le ambiguità italiane su Kiev, dopo che il presidente ucraino Zelensky, al meeting di Cernobbio, ha annunciato che il prossimo novembre presenterà un suo piano di pace. L’annuncio, ricorda Mieli, è avvenuto a ridosso di un incontro da lui molto apprezzato con Giorgia Meloni di cui si fida fin dai tempi in cui si schierò dalla parte di Kiev. Però in tempi recenti, in materia d’adesione alla causa di Kiev, le cose sono un po’ cambiate. L’Italia è stata, assieme all’Ungheria, l’unico Paese europeo a schierarsi contro l’uso delle armi inviate dai Paesi occidentali per colpire le basi russe. Basi da cui partono i micidiali missili russi che stanno devastando quel che è ancora in piedi nella parte tuttora libera dell’Ucraina. E stavolta a sinistra nessuno – eccezion fatta per l’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini – ha levato la propria voce contro questa iniziativa di «stampo orbaniano». Laddove ad ogni evidenza è stata l’Italia – ripetiamo: unico Paese in Europa — ad avvicinarsi alle posizioni ungheresi e non viceversa. Il che vuole dire che per una parte consistente della sinistra italiana ci sono occasioni – e non di poco momento - in cui le posizioni di Orbán si fanno apprezzabili. Curioso che l’altro ospite d’eccezione invitato a Cernobbio sia stato proprio l’ungherese Viktor Orbán, quasi a controbilanciare la presenza di Zelensky. E a dichiarare, implicitamente, una sorta di equidistanza da parte degli organizzatori del consesso. Piccoli dettagli che indicano il mutare dei tempi. E l’Italia da tempo immemorabile, secoli, è il Paese più sensibile nel registrare questo genere di variazioni.  Contemporaneamente il ministro della Difesa Guido Crosetto ha fatto la sua rentrée politica di fine estate – forse non casualmente – ad una festa del Fatto quotidiano dove è stato accolto persino con degli applausi.
 
Stefano Folli, la Repubblica
Su Repubblica Stefano Folli si occupa del “lungo duello” tra Elly Schlein e Giuseppe Conte, il quale, avendo scelto per sé il ruolo dell’anti-Renzi, ossia di colui che impedirà qualsiasi forma di patto tra Schlein e il capo di Italia Viva, si guadagna entrate trionfali ogni volta che partecipa a eventi del Pd (come è avvenuto giustappunto alla Festa dell’Unità. Che poi il veto contro Renzi sia strategico o solo opportunistico, lo vedremo strada facendo. Nel frattempo, l’ex presidente del Consiglio che passò da Salvini ai democratici appare come il leader di una corrente esterna al partito di Schlein. Perfino il litigio con Grillo, destinato con ogni probabilità a vedere la vittoria del cosiddetto avvocato del popolo, è funzionale a ridefinire l’immagine di quest’ultimo: non più — e da tempo — strumento del “grillismo”, bensì personaggio dalla nuova identità. Ma attenzione alle apparenze, che come è noto ingannano. Conte cerca di liquidare i rapporti con il comico genovese, è vero, ma non certo per entrare nel circolo ristretto di Schlein. Il suo scopo, è palese, consiste nel non riconoscere mai la leadership del Pd nel centrosinistra, come dire che si stipulano solo tregue tattiche, accordi limitati e poi si rilancia appena possibile come al tavolo del poker. Tuttavia Schlein qualcosa ormai ha capito di queste manovre. Ieri, ad esempio, non ha escluso di votare Raffaele Fitto come commissario della nuova Commissione: si tratterà di verificare prima le deleghe che gli verranno riconosciute. È una mossa abile (il primo a suggerirla è stato Pier Ferdinando Casini), che dimostra come su alcuni aspetti istituzionali, volti a tutelare l’immagine italiana in Europa e nel mondo, Fratelli d’Italia e Pd, i due maggiori protagonisti della scena politica, possono e forse devono trovare punti d’intesa.
 
Vittorio Macioce, Il Giornale
Qualcuno – commenta sul Giornale Vittorio Macioce – pensava che dopo la sconfitta elettorale di due anni fa Pd e Cinque Stelle avrebbero fatto i conti con i propri errori. Si dice che chi perde impara ma non è sempre così. È più facile cercare alibi o, come in questo caso, passare le giornate a demonizzare l’avversario, negando il diritto a governare degli altri. È un abito mentale, in fondo comodo, perché ti toglie qualsiasi responsabilità politica: non solo loro sono peggio di noi, ma non dovrebbero stare lì perché illegittimi. Questa risposta però non ti fa crescere e, soprattutto, lascia la coalizione di sinistra indefinita. È una nebulosa politica che fatica a trovare un’identità. Non c’è quasi un denominatore comune per riconoscersi. Non si sa a chi parla, cosa vuole, quali sono i suoi santi. È uno specchio rotto dove ogni frammento insegue ideali e interessi diversi, qualche volta divergenti. La sinistra da troppi anni si definisce solo per antitesi. Non sa chi è, ma si percepisce solo in quello che detesta. Il senso del peregrinare nella sabbia ideologica avrebbe dovuto appunto chiarire che semi far crescere nel campo largo e invece l’unica discussione pubblica è sui confini, fino a dove arrivare. Renzi sì e Calenda no, o viceversa. Pd e Cinque Stelle adesso sì e poi magari no e poi ancora sì. È il segno che questo campo resta un terreno elettorale e serve solo a raccattare voti con la speranza di mandare a casa gli impostori. È ancora una volta una ricerca in negativo di se stessi. C’è mai stato davvero un confronto politico tra Pd e Cinque Stelle? Finora si sono solo sfidati su chi debba essere il padrone e il mezzadro del campo largo. Non si sono mai chiesti cosa abbiano in comune per arrivare a una coalizione. Il campo largo di Conte è stato sempre un terreno tattico. La sua strategia è lasciarsi le mani libere per allearsi con chi in un dato momento storico e politico potrebbe essergli più utile.
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