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I nuovi arsenali: se torna l'incubo atomico
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 04/09/2024
I nuovi arsenali: se torna l'incubo atomico
Danilo Taino, Corriere della Sera
Per quanto sgradevoli – scrive Danilo Taino sul Corriere della Sera –, i war games si moltiplicano: simulazioni di come potrebbe scoppiare, svilupparsi e terminare uno scontro armato. Soprattutto tra Stati Uniti e Cina. Anche nucleare. Confermano che il disastro sarebbe immenso, e da questo punto di vista sono utili. Rafael Grossi – il direttore generale dell’International Atomic Energy Agency, Iaea, un’agenzia delle Nazioni Unite – nei giorni scorsi è però stato più concreto, è andato oltre i giochi da tavolo e da computer. In un’intervista, ha sostenuto che, almeno dalla fine della Guerra Fredda, mai come oggi Paesi «importanti» parlano apertamente di dotarsi di un arsenale nucleare. E che l’ordine internazionale è messo sottosopra dalla nuova competizione tra potenze, le protezioni e le fedeltà di un tempo stanno saltando e, nell’incertezza conseguente, più di un governo pensa di doversi dare una propria arma decisiva per la deterrenza contro possibili nemici. Secondo Grossi, il risultato è che il Trattato di Non Proliferazione Nucleare del 1968 (Npt) rischia di diventare carta straccia. Oggi, ricorda Taino, ci sono nove Paesi con arsenali nucleari. Cinque, sono i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina. Gli altri quattro non hanno firmato l’Npt e negli anni si sono dotati della bomba: India (1974), Pakistan (1998), Israele (che non lo ha mai ammesso ufficialmente), Corea del Nord (2006 dopo essere uscita dal Trattato). Ora, c’è un Paese vicino a costruire un suo arsenale: l’Iran. Il principe della corona saudita, Mohammad bin Salman, ha chiarito che, se il nemico Iran si dota della bomba, anche l’Arabia Saudita dovrà «averne una». Per parte sua, Vladimir Putin e amici di tanto in tanto minacciano l’uso di armi nucleari tattiche. A Oriente, la Cina sta sviluppando a ritmo accelerato la sua forza nucleare. Giappone e Corea del Sud sarebbero sotto pressione per dotarsi essi stessi dell’arma atomica. In Europa, si discute la possibilità avanzata da Emmanuel Macron di ampliare a tutto il continente la deterrenza nucleare francese. Nuovi scenari nei «giochi di guerra».
Stefano Cappellini, la Repubblica
Su Repubblica Stefano Cappellini si occupa del caso Sangiuliano. Non è ancora chiaro – commenta – se l’improvvisata e franosa trincea dietro la quale il ministro della Cultura si è riparato gli permetterà di evitare le dimissioni per l’ormai nota storia della sua ex “quasi consigliera” Maria Rosaria Boccia. Nel dubbio, la presidente del Consiglio ha dispiegato la medesima logica di partito già usata per blindare anche altri esponenti del governo, come i ministri Santanchè e Lollobrigida. In Meloni prevale sempre l’istinto difensivo della tribù, maturato in anni e anni di militanza catacombale nella destra missina: il mondo contro di noi, noi contro il mondo. Non è una attitudine che porta bene e lontano, e infatti in origine non serviva a questo, serviva solo a giustificare la propria marginalità politica e a darle una verniciata di finto eroismo. Riproposta ora che Meloni è a Palazzo Chigi, la posa appare grottesca, oltre che dannosa. Non che la cosa possa stupire, parliamo di una presidente del Consiglio che in vista delle nomine europee ha preferito tenere fede alla fama di Fratelli d’Italia piuttosto che seguire l’interesse nazionale. A Meloni pare sfuggire l’effetto collaterale della difesa di Sangiuliano, e cioè che la responsabilità politica degli errori commessi, se coperti a dispetto dell’evidenza, finisce per ricadere su Palazzo Chigi. A maggior ragione in questo caso, visto che c’è di mezzo la gestione di un evento del G7 e governi di Paesi dove la grammatica politica spinge a non considerare quisquilie la corretta gestione dei dossier istituzionali, ancora più se legati a questioni di sicurezza. Un problema evidente, come spesso accade quando si parla di Meloni, è l’assoluta incoerenza tra parole e opere. Per questo, da capa dell’opposizione, chiedeva dimissioni immediate dell’allora ministra Josefa Idem per una piccola vicenda di condono fiscale, dimissioni che Idem responsabilmente diede, mentre per trarre le conseguenze sulle spericolatezze dei suoi ministri c’è sempre bisogno di altro, una sentenza, una carta che manca, un girato integrale, un unicorno.
Elena Loewenthal, La Stampa
Come sottolinea Elena Loewenthal sulla Stampa, di settimana in settimana sono sempre più oceaniche le manifestazioni di protesta in Israele contro Netanyahu, il governo, contro quello che succede, contro quello che è successo, contro un futuro più incerto che mai. La voce di quei tanti che scendono in piazza e parlano indignati a Netanyahu dice che non ci si può rassegnare né a questa guerra assurda né all’idea che quegli uomini, quelle donne e quei bambini ancora nelle mani dei terroristi non siano la priorità, la questione fondamentale. Ma nella conferenza stampa del 2 settembre scorso Netanyahu ha spiegato perché il governo non intende cedere sul corridoio Philadelphia – di fatto il tratto di confine che separa la striscia di Gaza dall’Egitto, attraverso il quale è passato di tutto in termini di uomini e armi, nei mesi e negli anni scorsi. Ha insistito sul fatto che si tratta di una guerra “esistenziale” perché c’è in gioco la sopravvivenza di Israele di fronte alla minaccia dell’Iran. Ha richiamato la necessità che il paese stia unito di fronte a tale minaccia. Ma si ritrova invece con una opposizione sempre più rabbiosa, sempre più addolorata. Difficile dire che cosa succederà domani, quale scenario potrà prospettarsi, di giorno in giorno. Il primo ministro e il suo governo si stanno confrontando con una protesta iniziata ben prima della guerra, su questioni, anche qui, di ordine più esistenziale che schiettamente giuridiche. Che sia impossibile scendere a patti col terrorismo, purtroppo, lo sanno tutti gli israeliani – di destra o di sinistra che siano. Purtroppo lo sanno sulla propria pelle. Che vada fatto tutto il possibile e l’impossibile per salvare gli ostaggi ancora in vita, fosse anche uno soltanto, lo sanno tutti, in Israele. Ed è proprio intorno a queste due certezze, ancora tremendamente lontane dalla realtà, che si avvita in tutta la sua tremenda complessità il conflitto interno in un paese che, pur nell’emergenza di questa terribile guerra, dimostra di sapere e volere usare gli strumenti della democrazia.
Per quanto sgradevoli – scrive Danilo Taino sul Corriere della Sera –, i war games si moltiplicano: simulazioni di come potrebbe scoppiare, svilupparsi e terminare uno scontro armato. Soprattutto tra Stati Uniti e Cina. Anche nucleare. Confermano che il disastro sarebbe immenso, e da questo punto di vista sono utili. Rafael Grossi – il direttore generale dell’International Atomic Energy Agency, Iaea, un’agenzia delle Nazioni Unite – nei giorni scorsi è però stato più concreto, è andato oltre i giochi da tavolo e da computer. In un’intervista, ha sostenuto che, almeno dalla fine della Guerra Fredda, mai come oggi Paesi «importanti» parlano apertamente di dotarsi di un arsenale nucleare. E che l’ordine internazionale è messo sottosopra dalla nuova competizione tra potenze, le protezioni e le fedeltà di un tempo stanno saltando e, nell’incertezza conseguente, più di un governo pensa di doversi dare una propria arma decisiva per la deterrenza contro possibili nemici. Secondo Grossi, il risultato è che il Trattato di Non Proliferazione Nucleare del 1968 (Npt) rischia di diventare carta straccia. Oggi, ricorda Taino, ci sono nove Paesi con arsenali nucleari. Cinque, sono i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina. Gli altri quattro non hanno firmato l’Npt e negli anni si sono dotati della bomba: India (1974), Pakistan (1998), Israele (che non lo ha mai ammesso ufficialmente), Corea del Nord (2006 dopo essere uscita dal Trattato). Ora, c’è un Paese vicino a costruire un suo arsenale: l’Iran. Il principe della corona saudita, Mohammad bin Salman, ha chiarito che, se il nemico Iran si dota della bomba, anche l’Arabia Saudita dovrà «averne una». Per parte sua, Vladimir Putin e amici di tanto in tanto minacciano l’uso di armi nucleari tattiche. A Oriente, la Cina sta sviluppando a ritmo accelerato la sua forza nucleare. Giappone e Corea del Sud sarebbero sotto pressione per dotarsi essi stessi dell’arma atomica. In Europa, si discute la possibilità avanzata da Emmanuel Macron di ampliare a tutto il continente la deterrenza nucleare francese. Nuovi scenari nei «giochi di guerra».
Stefano Cappellini, la Repubblica
Su Repubblica Stefano Cappellini si occupa del caso Sangiuliano. Non è ancora chiaro – commenta – se l’improvvisata e franosa trincea dietro la quale il ministro della Cultura si è riparato gli permetterà di evitare le dimissioni per l’ormai nota storia della sua ex “quasi consigliera” Maria Rosaria Boccia. Nel dubbio, la presidente del Consiglio ha dispiegato la medesima logica di partito già usata per blindare anche altri esponenti del governo, come i ministri Santanchè e Lollobrigida. In Meloni prevale sempre l’istinto difensivo della tribù, maturato in anni e anni di militanza catacombale nella destra missina: il mondo contro di noi, noi contro il mondo. Non è una attitudine che porta bene e lontano, e infatti in origine non serviva a questo, serviva solo a giustificare la propria marginalità politica e a darle una verniciata di finto eroismo. Riproposta ora che Meloni è a Palazzo Chigi, la posa appare grottesca, oltre che dannosa. Non che la cosa possa stupire, parliamo di una presidente del Consiglio che in vista delle nomine europee ha preferito tenere fede alla fama di Fratelli d’Italia piuttosto che seguire l’interesse nazionale. A Meloni pare sfuggire l’effetto collaterale della difesa di Sangiuliano, e cioè che la responsabilità politica degli errori commessi, se coperti a dispetto dell’evidenza, finisce per ricadere su Palazzo Chigi. A maggior ragione in questo caso, visto che c’è di mezzo la gestione di un evento del G7 e governi di Paesi dove la grammatica politica spinge a non considerare quisquilie la corretta gestione dei dossier istituzionali, ancora più se legati a questioni di sicurezza. Un problema evidente, come spesso accade quando si parla di Meloni, è l’assoluta incoerenza tra parole e opere. Per questo, da capa dell’opposizione, chiedeva dimissioni immediate dell’allora ministra Josefa Idem per una piccola vicenda di condono fiscale, dimissioni che Idem responsabilmente diede, mentre per trarre le conseguenze sulle spericolatezze dei suoi ministri c’è sempre bisogno di altro, una sentenza, una carta che manca, un girato integrale, un unicorno.
Elena Loewenthal, La Stampa
Come sottolinea Elena Loewenthal sulla Stampa, di settimana in settimana sono sempre più oceaniche le manifestazioni di protesta in Israele contro Netanyahu, il governo, contro quello che succede, contro quello che è successo, contro un futuro più incerto che mai. La voce di quei tanti che scendono in piazza e parlano indignati a Netanyahu dice che non ci si può rassegnare né a questa guerra assurda né all’idea che quegli uomini, quelle donne e quei bambini ancora nelle mani dei terroristi non siano la priorità, la questione fondamentale. Ma nella conferenza stampa del 2 settembre scorso Netanyahu ha spiegato perché il governo non intende cedere sul corridoio Philadelphia – di fatto il tratto di confine che separa la striscia di Gaza dall’Egitto, attraverso il quale è passato di tutto in termini di uomini e armi, nei mesi e negli anni scorsi. Ha insistito sul fatto che si tratta di una guerra “esistenziale” perché c’è in gioco la sopravvivenza di Israele di fronte alla minaccia dell’Iran. Ha richiamato la necessità che il paese stia unito di fronte a tale minaccia. Ma si ritrova invece con una opposizione sempre più rabbiosa, sempre più addolorata. Difficile dire che cosa succederà domani, quale scenario potrà prospettarsi, di giorno in giorno. Il primo ministro e il suo governo si stanno confrontando con una protesta iniziata ben prima della guerra, su questioni, anche qui, di ordine più esistenziale che schiettamente giuridiche. Che sia impossibile scendere a patti col terrorismo, purtroppo, lo sanno tutti gli israeliani – di destra o di sinistra che siano. Purtroppo lo sanno sulla propria pelle. Che vada fatto tutto il possibile e l’impossibile per salvare gli ostaggi ancora in vita, fosse anche uno soltanto, lo sanno tutti, in Israele. Ed è proprio intorno a queste due certezze, ancora tremendamente lontane dalla realtà, che si avvita in tutta la sua tremenda complessità il conflitto interno in un paese che, pur nell’emergenza di questa terribile guerra, dimostra di sapere e volere usare gli strumenti della democrazia.
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