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Meloni vuole privatizzare un po' di Rai
Redazione InPiù 26/07/2024
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Claudio Cerasa, Il Foglio
Nell’agenda politica della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, scrive sul Foglio Claudio Cerasa, c’è un colpo a sorpresa che potrebbe cogliere alla sprovvista tanto l’opposizione quanto la maggioranza. Un colpo a sorpresa, e clamoroso, che riguarda una tentazione esplicita che la premier sta accarezzando da alcuni giorni e che potrebbe diventare uno degli argomenti della prossima legge di Stabilità. Tre parole: privatizzare la Rai. Nonostante una certa dimestichezza con il vocabolario del sovranismo, diciamo così, il verbo privatizzare, negli ultimi mesi, è stato evocato da Giorgia Meloni in diverse partite. Nell’ultima legge di Stabilità, il governo ha fissato entrate, per lo stato, pari a venti miliardi di euro, da ottenere attraverso la cessione del 4 per cento di Eni (già avvenuta), attraverso la cessione di una quota che potrebbe arrivare fino al 29 per cento di Poste (percorso avviato lo scorso 25 gennaio), attraverso la privatizzazione di Mps, attraverso la privatizzazione delle Ferrovie dello stato e attraverso la cessione di una quota di Rai Way. Ma non ci vuole molto a capire che, nel caso della Rai, l’evocazione improvvisa dello scenario della privatizzazione è qualcosa di più di un semplice ragionamento di natura contabile e assomiglierebbe invece a una svolta insieme politica e culturale. Politica perché mentre gli avversari di Meloni accusano la premier di voler monopolizzare il servizio pubblico trasformandolo in una discarica del melonismo, la premier, con una mossa di questo genere, cambierebbe la narrazione, come si dice, e imboccherebbe una traiettoria opposta: non mettere più politica in Rai ma, al contrario, mettere un po’ di Rai sul mercato, per togliere un po’ di politica. La volontà, in questo caso saggia, di voler dimostrare che il governo potrebbe fare l’opposto di quello di cui lo accusano gli avversari. Ma andare nella direzione di una robusta privatizzazione della Rai è anche una strada inevitabile per tutti coloro che hanno un minimo di contezza su un tema delicato, drammatico, che è l’indebitamento accumulato negli anni dalla Rai (568 milioni di euro).
Mario Sechi, Libero
Sei anni fa, il 25 luglio del 2018, ricorda Mario Sechi su Libero, moriva Sergio Marchionne, artefice dello spettacolare salvataggio della carcassa della Fiat, dell’incredibile acquisto di Chrysler - il mito dell’automobile americana - e della fortuna degli eredi della famiglia Agnelli. I suoi nemici (erano tanti, nessuno intelligente) tirarono un sospiro di sollievo, ma chi lo conosceva sapeva che la scomparsa dell’uomo “made in Chieti” sarebbe stato un evento disastroso per il futuro dell’automobile italiana. Il passaggio del timone della casa di Torino a Parigi è avvenuto in sua assenza e non è casuale, come l’arrivo di Carlos Tavares, manager agli antipodi rispetto a Marchionne, un franco-portoghese alieno rispetto all’Italia. Gli uomini spesso sono le cose e le cose forgiano gli uomini, nel caso di Marchionne egli era cuore e mente dell’azienda, l’italiano più cittadino del mondo, cresciuto alla scuola americana, e più attaccato al sogno e alla concretezza del Belpaese. Marchionne è storia, Tavares resterà cronaca e poi niente. Quando ieri sono usciti i conti del primo semestre di Stellantis non sono rimasto sorpreso. Sono pessimi, ma più dei numeri parlano i silenzi, il ritardo accumulato nel rispondere a una profonda trasformazione del mercato, al mutamento degli stili di consumo, alla segmentazione dell’offerta. Stellantis ha risorse finanziarie per vincere, ma la realtà è che sta perdendo la sfida più importante, quella delle idee. Quando Tavares dice che nel 2024 lanceranno 20 modelli testimonia che l’azienda investe, ma certifica la confusione del messaggio (l’idea di fondo), provata dal fatto che poi lo stesso Tavares afferma che i marchi non redditizi saranno venduti. Interessante, a questo punto il cronista si chiede: “Quali marchi?”. Perché la Lancia è un ectoplasma, l’Alfa Romeo è l’ombra di una grande storia, Maserati è un enigma, Fiat è attaccata alla Panda. Quelli che cito, non a caso sono tutti marchi italiani, una parola di chiarezza sarebbe gradita. Cosa avrebbe detto e fatto Marchionne? Avrebbe evitato il muro contro muro col governo tanto per cominciare, le sbruffonerie, raccontato la verità fin dall’inizio, con parole aspre e fiammeggianti (fuoco d’amore), toccando la corda del patriottismo e la grande storia dell’auto italiana. Ma Tavares non è Marchionne. E purtroppo si vede.
Nell’agenda politica della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, scrive sul Foglio Claudio Cerasa, c’è un colpo a sorpresa che potrebbe cogliere alla sprovvista tanto l’opposizione quanto la maggioranza. Un colpo a sorpresa, e clamoroso, che riguarda una tentazione esplicita che la premier sta accarezzando da alcuni giorni e che potrebbe diventare uno degli argomenti della prossima legge di Stabilità. Tre parole: privatizzare la Rai. Nonostante una certa dimestichezza con il vocabolario del sovranismo, diciamo così, il verbo privatizzare, negli ultimi mesi, è stato evocato da Giorgia Meloni in diverse partite. Nell’ultima legge di Stabilità, il governo ha fissato entrate, per lo stato, pari a venti miliardi di euro, da ottenere attraverso la cessione del 4 per cento di Eni (già avvenuta), attraverso la cessione di una quota che potrebbe arrivare fino al 29 per cento di Poste (percorso avviato lo scorso 25 gennaio), attraverso la privatizzazione di Mps, attraverso la privatizzazione delle Ferrovie dello stato e attraverso la cessione di una quota di Rai Way. Ma non ci vuole molto a capire che, nel caso della Rai, l’evocazione improvvisa dello scenario della privatizzazione è qualcosa di più di un semplice ragionamento di natura contabile e assomiglierebbe invece a una svolta insieme politica e culturale. Politica perché mentre gli avversari di Meloni accusano la premier di voler monopolizzare il servizio pubblico trasformandolo in una discarica del melonismo, la premier, con una mossa di questo genere, cambierebbe la narrazione, come si dice, e imboccherebbe una traiettoria opposta: non mettere più politica in Rai ma, al contrario, mettere un po’ di Rai sul mercato, per togliere un po’ di politica. La volontà, in questo caso saggia, di voler dimostrare che il governo potrebbe fare l’opposto di quello di cui lo accusano gli avversari. Ma andare nella direzione di una robusta privatizzazione della Rai è anche una strada inevitabile per tutti coloro che hanno un minimo di contezza su un tema delicato, drammatico, che è l’indebitamento accumulato negli anni dalla Rai (568 milioni di euro).
Mario Sechi, Libero
Sei anni fa, il 25 luglio del 2018, ricorda Mario Sechi su Libero, moriva Sergio Marchionne, artefice dello spettacolare salvataggio della carcassa della Fiat, dell’incredibile acquisto di Chrysler - il mito dell’automobile americana - e della fortuna degli eredi della famiglia Agnelli. I suoi nemici (erano tanti, nessuno intelligente) tirarono un sospiro di sollievo, ma chi lo conosceva sapeva che la scomparsa dell’uomo “made in Chieti” sarebbe stato un evento disastroso per il futuro dell’automobile italiana. Il passaggio del timone della casa di Torino a Parigi è avvenuto in sua assenza e non è casuale, come l’arrivo di Carlos Tavares, manager agli antipodi rispetto a Marchionne, un franco-portoghese alieno rispetto all’Italia. Gli uomini spesso sono le cose e le cose forgiano gli uomini, nel caso di Marchionne egli era cuore e mente dell’azienda, l’italiano più cittadino del mondo, cresciuto alla scuola americana, e più attaccato al sogno e alla concretezza del Belpaese. Marchionne è storia, Tavares resterà cronaca e poi niente. Quando ieri sono usciti i conti del primo semestre di Stellantis non sono rimasto sorpreso. Sono pessimi, ma più dei numeri parlano i silenzi, il ritardo accumulato nel rispondere a una profonda trasformazione del mercato, al mutamento degli stili di consumo, alla segmentazione dell’offerta. Stellantis ha risorse finanziarie per vincere, ma la realtà è che sta perdendo la sfida più importante, quella delle idee. Quando Tavares dice che nel 2024 lanceranno 20 modelli testimonia che l’azienda investe, ma certifica la confusione del messaggio (l’idea di fondo), provata dal fatto che poi lo stesso Tavares afferma che i marchi non redditizi saranno venduti. Interessante, a questo punto il cronista si chiede: “Quali marchi?”. Perché la Lancia è un ectoplasma, l’Alfa Romeo è l’ombra di una grande storia, Maserati è un enigma, Fiat è attaccata alla Panda. Quelli che cito, non a caso sono tutti marchi italiani, una parola di chiarezza sarebbe gradita. Cosa avrebbe detto e fatto Marchionne? Avrebbe evitato il muro contro muro col governo tanto per cominciare, le sbruffonerie, raccontato la verità fin dall’inizio, con parole aspre e fiammeggianti (fuoco d’amore), toccando la corda del patriottismo e la grande storia dell’auto italiana. Ma Tavares non è Marchionne. E purtroppo si vede.
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