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La Chiesa e l'aiuto agli ucraini
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 26/07/2024
La Chiesa e l'aiuto agli ucraini
Paolo Mieli, Corriere della Sera
Dal 24 febbraio 2024, data di inizio della brutale aggressione russa, l’Ucraina – scrive Paolo Mieli sul Corriere della Sera – non è mai stata così sola e isolata come in queste settimane. Stati Uniti ed Europa pensano sostanzialmente ai fatti propri, le parole di incoraggiamento sono quelle di sempre, le armi arrivano con la consueta lentezza ma i missili di Putin piombano addirittura sui soccorritori dei feriti di Kharkiv. A sorpresa però un sostegno, quantomeno psicologico, giunge da dove un osservatore distratto non se lo sarebbe mai aspettato: la Santa Sede. Il segretario di Stato Pietro Parolin (seguito da un valente giornalista di Avvenire, Giacomo Gambassi) è comparso il 23 luglio davanti alla Cattedrale della Trasfigurazione di Odessa sfregiata esattamente un anno fa da un missile putiniano. Si tratta della Cattedrale della Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca, presa appositamente di mira dai russi nel luglio del 2023. Quindi Parolin si è trasferito nella capitale dove ha incontrato Zelensky. E anche stavolta l’incontro ha avuto un carattere ben diverso da quelli precedenti. Zelensky nel tempo si è reso conto infatti che la mediazione solitaria avviata in tempi proibitivi dal presidente della Cei Matteo Zuppi ha dato frutti all’epoca inimmaginabili. Non soltanto sul piano delicatissimo della restituzione (parziale ma di una qualche consistenza) dei bimbi ucraini «rapiti» dai russi o su quella dello scambio dei prigionieri. Bensì anche su quella ancor più sensibile del rientro in patria dei prigionieri del battaglione Azov. La Chiesa di Roma che, per mesi e mesi, era parsa assai poco sensibile ai destini nella «martoriata Ucraina» è ora in prima fila a battersi per la sorte dei derelitti, perfino delle vittime più trascurate di quel conflitto. Ci sembra doveroso dargliene atto. E non passare sotto silenzio le notizie che testimoniano i risultati di questo lungo, laborioso e soprattutto silenzioso sforzo.
Linda Laura Sabbadini, la Repubblica
L’ articolo 32 della nostra Costituzione parla chiaro, afferma su Repubblica Linda Laura Sabbadini: la salute è un diritto per tutti. La legge del 1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), invidiataci da tutto il mondo, è altrettanto nitida al riguardo. Identifica tre principi fondamentali su cui si basa il Ssn: universalità, eguaglianza, equità. Universalità, perché la salute è vista come una risorsa per tutta la comunità e non semplicemente come un bene individuale. Eguaglianza, perché tutti devono poter accedere ai servizi, indipendentemente dal proprio status socioeconomico. Equità, perché a eguali bisogni deve corrispondere parità di accesso. Per rendere realmente fruibile il diritto alla salute il Ssn ha attivato il circuito prevenzione-cura-riabilitazione. Ma la tutela della salute pubblica è messa a dura prova, solo quattro anni dopo quella pandemia terribile, che aveva evidenziato le gravi conseguenze a cui si è andati incontro in seguito al disinvestimento continuo sulla Sanità. Oggi alcune scelte da parte governativa contribuiscono a intaccare fortemente il diritto alla salute: la bassa percentuale di spesa sanitaria sul Pil prevista per il triennio, il decreto sulle liste di attesa che favorisce il settore privato e non risolve strutturalmente il problema nel pubblico, il mancato finanziamento della legge sulla non autosufficienza, l’Autonomia differenziata, la mancata assunzione di medici e soprattutto infermieri nel settore pubblico, fortemente penalizzati per l’eccessivo sovraccarico di lavoro e stress. Con queste scelte si colpiscono tutti i cittadini, ma in particolare i più fragili, i meno tutelati, con un più basso titolo di studio, ed estrazione sociale, che vivono nel Mezzogiorno del nostro Paese, che non hanno le risorse per ricorrere al settore privato per curarsi. E sì, perché è noto dalle ricerche e dai dati Istat. I più disagiati si ammalano prima e di più, vivono meno a lungo, hanno maggiori rischi di disabilità, non autosufficienza, multicronicità, mortalità per diverse cause, minore e più tardivo accesso alla prevenzione e alla cura. Soprattutto nel Sud del Paese. Le diseguaglianze nella salute non sono affatto inevitabili. Cresceranno inevitabilmente se si penalizza il Servizio Pubblico e si adotta una politica che privilegia la sanità privata, invece di renderla un completamento, una integrazione, di quella pubblica.
Irene Tinagli, La Stampa
«Gli Stati Uniti innovano, la Cina copia, l’Unione Europea regolamenta»: questo – ricorda Irene Tinagli sulla Stampa – il mantra che da tempo viene ripetuto negli ambienti economici europei per lamentare quella che viene vista come una «ipertrofia» regolatoria e una minaccia per la nostra competitività. L’intervento del vicepresidente dell’Abi Camillo Venesio, pubblicato martedì su questo giornale, descrive bene questo fenomeno. Che la stratificazione normativa sia un problema è incontestabile, lo sappiamo bene noi italiani. Capire come intervenire è altro discorso. Ci ricordiamo bene quando il ministro Calderoli si fece immortalare con la fiamma ossidrica mentre dava fuoco ad una montagna di documenti. Tanto potente il gesto, quanto irrisori i risultati. Serve una riflessione su due aspetti. Innanzitutto sulle cause di questo «eccesso regolatorio» europeo. In secondo luogo, è necessario capire se e dove queste regole causano un deficit di competitività. Altrimenti rischiamo di agire con interventi poco mirati che non centrano l’obiettivo. Non tutti gli aspetti regolatori hanno impatto negativo sull’economia reale: in alcuni casi servono a proteggerla. Il nodo della competitività europea risiede in una difficoltà strutturale a sviluppare e finanziare innovazione e investimenti su larga scala, a sua volta legata ad un mercato che è ancora troppo frammentato, troppo chiuso nei confini nazionali e poco «europeo», come evidenzia il rapporto di Enrico Letta. Purtroppo l’Ue non ha ancora né un vero mercato unico della ricerca né dei capitali per poter finanziare imprese e innovazione, così come manca un bilancio veramente corposo, autonomo, in grado di sostenere investimenti e affrontare sfide come la transizione ecologica. In assenza di solidi strumenti economici europei, l’unico strumento che resta in mano all’Ue per coordinare i comportamenti degli operatori sono i regolamenti.
Dal 24 febbraio 2024, data di inizio della brutale aggressione russa, l’Ucraina – scrive Paolo Mieli sul Corriere della Sera – non è mai stata così sola e isolata come in queste settimane. Stati Uniti ed Europa pensano sostanzialmente ai fatti propri, le parole di incoraggiamento sono quelle di sempre, le armi arrivano con la consueta lentezza ma i missili di Putin piombano addirittura sui soccorritori dei feriti di Kharkiv. A sorpresa però un sostegno, quantomeno psicologico, giunge da dove un osservatore distratto non se lo sarebbe mai aspettato: la Santa Sede. Il segretario di Stato Pietro Parolin (seguito da un valente giornalista di Avvenire, Giacomo Gambassi) è comparso il 23 luglio davanti alla Cattedrale della Trasfigurazione di Odessa sfregiata esattamente un anno fa da un missile putiniano. Si tratta della Cattedrale della Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca, presa appositamente di mira dai russi nel luglio del 2023. Quindi Parolin si è trasferito nella capitale dove ha incontrato Zelensky. E anche stavolta l’incontro ha avuto un carattere ben diverso da quelli precedenti. Zelensky nel tempo si è reso conto infatti che la mediazione solitaria avviata in tempi proibitivi dal presidente della Cei Matteo Zuppi ha dato frutti all’epoca inimmaginabili. Non soltanto sul piano delicatissimo della restituzione (parziale ma di una qualche consistenza) dei bimbi ucraini «rapiti» dai russi o su quella dello scambio dei prigionieri. Bensì anche su quella ancor più sensibile del rientro in patria dei prigionieri del battaglione Azov. La Chiesa di Roma che, per mesi e mesi, era parsa assai poco sensibile ai destini nella «martoriata Ucraina» è ora in prima fila a battersi per la sorte dei derelitti, perfino delle vittime più trascurate di quel conflitto. Ci sembra doveroso dargliene atto. E non passare sotto silenzio le notizie che testimoniano i risultati di questo lungo, laborioso e soprattutto silenzioso sforzo.
Linda Laura Sabbadini, la Repubblica
L’ articolo 32 della nostra Costituzione parla chiaro, afferma su Repubblica Linda Laura Sabbadini: la salute è un diritto per tutti. La legge del 1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), invidiataci da tutto il mondo, è altrettanto nitida al riguardo. Identifica tre principi fondamentali su cui si basa il Ssn: universalità, eguaglianza, equità. Universalità, perché la salute è vista come una risorsa per tutta la comunità e non semplicemente come un bene individuale. Eguaglianza, perché tutti devono poter accedere ai servizi, indipendentemente dal proprio status socioeconomico. Equità, perché a eguali bisogni deve corrispondere parità di accesso. Per rendere realmente fruibile il diritto alla salute il Ssn ha attivato il circuito prevenzione-cura-riabilitazione. Ma la tutela della salute pubblica è messa a dura prova, solo quattro anni dopo quella pandemia terribile, che aveva evidenziato le gravi conseguenze a cui si è andati incontro in seguito al disinvestimento continuo sulla Sanità. Oggi alcune scelte da parte governativa contribuiscono a intaccare fortemente il diritto alla salute: la bassa percentuale di spesa sanitaria sul Pil prevista per il triennio, il decreto sulle liste di attesa che favorisce il settore privato e non risolve strutturalmente il problema nel pubblico, il mancato finanziamento della legge sulla non autosufficienza, l’Autonomia differenziata, la mancata assunzione di medici e soprattutto infermieri nel settore pubblico, fortemente penalizzati per l’eccessivo sovraccarico di lavoro e stress. Con queste scelte si colpiscono tutti i cittadini, ma in particolare i più fragili, i meno tutelati, con un più basso titolo di studio, ed estrazione sociale, che vivono nel Mezzogiorno del nostro Paese, che non hanno le risorse per ricorrere al settore privato per curarsi. E sì, perché è noto dalle ricerche e dai dati Istat. I più disagiati si ammalano prima e di più, vivono meno a lungo, hanno maggiori rischi di disabilità, non autosufficienza, multicronicità, mortalità per diverse cause, minore e più tardivo accesso alla prevenzione e alla cura. Soprattutto nel Sud del Paese. Le diseguaglianze nella salute non sono affatto inevitabili. Cresceranno inevitabilmente se si penalizza il Servizio Pubblico e si adotta una politica che privilegia la sanità privata, invece di renderla un completamento, una integrazione, di quella pubblica.
Irene Tinagli, La Stampa
«Gli Stati Uniti innovano, la Cina copia, l’Unione Europea regolamenta»: questo – ricorda Irene Tinagli sulla Stampa – il mantra che da tempo viene ripetuto negli ambienti economici europei per lamentare quella che viene vista come una «ipertrofia» regolatoria e una minaccia per la nostra competitività. L’intervento del vicepresidente dell’Abi Camillo Venesio, pubblicato martedì su questo giornale, descrive bene questo fenomeno. Che la stratificazione normativa sia un problema è incontestabile, lo sappiamo bene noi italiani. Capire come intervenire è altro discorso. Ci ricordiamo bene quando il ministro Calderoli si fece immortalare con la fiamma ossidrica mentre dava fuoco ad una montagna di documenti. Tanto potente il gesto, quanto irrisori i risultati. Serve una riflessione su due aspetti. Innanzitutto sulle cause di questo «eccesso regolatorio» europeo. In secondo luogo, è necessario capire se e dove queste regole causano un deficit di competitività. Altrimenti rischiamo di agire con interventi poco mirati che non centrano l’obiettivo. Non tutti gli aspetti regolatori hanno impatto negativo sull’economia reale: in alcuni casi servono a proteggerla. Il nodo della competitività europea risiede in una difficoltà strutturale a sviluppare e finanziare innovazione e investimenti su larga scala, a sua volta legata ad un mercato che è ancora troppo frammentato, troppo chiuso nei confini nazionali e poco «europeo», come evidenzia il rapporto di Enrico Letta. Purtroppo l’Ue non ha ancora né un vero mercato unico della ricerca né dei capitali per poter finanziare imprese e innovazione, così come manca un bilancio veramente corposo, autonomo, in grado di sostenere investimenti e affrontare sfide come la transizione ecologica. In assenza di solidi strumenti economici europei, l’unico strumento che resta in mano all’Ue per coordinare i comportamenti degli operatori sono i regolamenti.
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