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Gran Bretagna, gli errori e la svolta
Sintesi degli editoriali dei principali giornali
Redazione InPiù 05/07/2024
Gran Bretagna, gli errori e la svolta
Beppe Severgnini, Corriere della Sera
Sul Corriere della Sera, Beppe Severgnini commenta la schiacciante vittoria dei laburisti in Gran Bretagna nelle elezioni di ieri. Secondo gli exit-polls, notoriamente accurati, il partito laburista ha conquistato 410 seggi, lasciando ai conservatori solo 131 seggi. Maggioranza assoluta, il secondo miglior risultato di sempre. «Un massacro», il riassunto di Sky News. Prevedibile e previsto: i Tories, al potere dal 2010, hanno pagato la catena di errori, la superficialità e l’incapacità di risollevare l’economia, messa in ginocchio da Brexit. Il partito di Winston Churchill e Margaret Thatcher esce da questa tornata elettorale con le ossa rotte: ci vorranno anni per riprendersi. Il vento di destra che soffia sul Continente s’è fermato alla Manica? Inglesi, scozzesi e gallesi sono diventati tutti di sinistra? Ovviamente no. La verità, secondo l’editorialista, è un’altra. Se chi comanda delude, viene sostituito. Se la delusione è profonda, la sostituzione è rapida e feroce. Questa capacità di rinnovamento è la forza delle democrazie. I regimi ne sono sprovvisti. I despoti inacidiscono, invecchiano, impazziscono; ma non lasciano mai il potere, se non vengono costretti. Il partito conservatore britannico, invece, se ne andrà senza far storie: Donald Trump non abita a Downing Street. Un’uscita di scena clamorosa e ingloriosa, tuttavia. Il primo ministro sconfitto, Rishi Sunak, non è il più colpevole, ma paga per tutti. Un paese frustrato gli ha presentato il conto. Come ha potuto ridursi così, la classe politica più invidiata al mondo? Una spiegazione convincente la fornisce Simon Kuper nel suo libro Chums. Scuole eccellenti come Eton e ottime università come Oxford hanno allevato, negli anni Settanta a Ottanta, una casta intellettualmente arrogante e moralmente fragile, convinta che l’intelligenza brillante - non la preparazione, non la coerenza, non la moralità - le permettesse tutto e le perdonasse qualsiasi cosa. Il capofila di questa generazione è Boris Johnson. Non assisteremo ora al ritorno dello spirito di Tony Blair. La sua Cool Britannia non esiste più; al suo posto c’è una nazione convalescente, che ha bisogno di tempo per rimettersi in forze.
Claudio Tito, la Repubblica
Nella storica vittoria dei laburisti britannici – commenta su Repubblica Claudio Tito – c’è una lezione e un piccolo spicchio di speranza. Il populismo e la destra, nelle varie forme in cui si manifesta in Europa e nel resto del mondo, si può sconfiggere. Ma serve un progetto politico. Un disegno. Gli slogan della demagogia nazionalista si possono fronteggiare solo con le idee. Perché il terreno della propaganda e dell’istinto viscerale, per la destra è sempre quello più agevole. È il suo habitat naturale. Keir Starmer riporta la sinistra al governo della Gran Bretagna dopo quattordici anni. Soprattutto dopo la Brexit. Non c’è dubbio che i conservatori abbiano lasciato un Paese più povero e meno centrale. L’addio all’Unione europea ha reso l’Isola ancora più isolata, avvolta nella nebbia di un passato potente che non è più reale. È solo nostalgia e velleità. Lo dimostrano quasi tutti i dati macroeconomici: il Regno Unito è cresciuto e sta crescendo meno dell’Ue. Ma il nucleo della vittoria del Labour è un altro: aver proposto ai sudditi un percorso riformista. Ecco, la parola riformismo stava scomparendo dal lessico della politica continentale. Emarginata in un angolo della memoria. Starmer l’ha riportata al centro del dibattito dimostrando che il fronte progressista — come ha spiegato in una recente intervista al nostro giornale — può sconfiggere il populismo solo in questo modo. Tra le sue parole d’ordine figura il “centre ground”, che non è la semplificazione centrista ma la capacità di coinvolgere nel programma riformista ampi settori della popolazione e dell’elettorato. Del resto, la ricetta radicale sottoposta al giudizio delle urne, ad esempio da Jeremy Corbyn, non ha dato risultati. Che non si possono giustificare con il momento storico differente. Non può essere un caso che a Downing street torni lui dopo Blair (a parte la parentesi di Gordon Brown).
Massimo Martinelli, Il Messaggero
La ripresa alla Camera del dibattito sull'abolizione del reato di abuso d'ufficio – osserva sul Messaggero Massimo Martinelli – riaccende i riflettori sul delicato rapporto tra il controllo delle leggi da parte del Parlamento e l'applicazione di quelle stesse leggi da parte della magistratura. Il Parlamento, nella sua autonomia, ha deciso di intervenire in maniera radicale sul reato di abuso d'ufficio – il 323 del codice penale – che molti giuristi considerano “indefinito” perché punisce il pubblico ufficiale che abusando dei suoi poteri pone in essere qualsiasi condotta non prevista da altri articoli del codice penale. Questo tratto di incertezza sui confini di legalità che il pubblico ufficiale deve rispettare, ha prodotto negli anni il fenomeno nefasto del “timore della firma”, una sorta di immobilismo amministrativo generato dalla paura di finire sotto inchiesta per una decisione che una procura può ritenere meritevole di verifica giudiziaria. Probabilmente, se il sistema processuale penale fosse calibrato in maniera diversa, il timore della firma non avrebbe ragion d'essere, perché le statistiche dicono che gran parte di quelle verifiche giudiziarie che le procure ritengono di attivare sui casi di (presunto) abuso d'ufficio, si risolvono con un nulla di fatto, il che induce a due riflessioni. La prima: per troppe volte negli ultimi anni, la macchina amministrativa dello Stato si è inceppata a causa di un processo penale che si è risolto con un nulla di fatto. La seconda riguarda l'origine di quella abnorme percentuale di esiti negativi delle indagini per abuso d'ufficio, di gran lunga superiore alla percentuale (già altissima) degli esiti negativi di tutti gli altri procedimenti penali. A questo tipo di fenomeno si era cercato di porre rimedio in passato responsabilizzando i capi delle procure. Ma tale soluzione, avverte Martinelli, rischia di essere ora vanificata da una recente circolare preparata dalla componente togata del Csm, volta a rendere più orizzontale la gestione degli uffici della procura.
Sul Corriere della Sera, Beppe Severgnini commenta la schiacciante vittoria dei laburisti in Gran Bretagna nelle elezioni di ieri. Secondo gli exit-polls, notoriamente accurati, il partito laburista ha conquistato 410 seggi, lasciando ai conservatori solo 131 seggi. Maggioranza assoluta, il secondo miglior risultato di sempre. «Un massacro», il riassunto di Sky News. Prevedibile e previsto: i Tories, al potere dal 2010, hanno pagato la catena di errori, la superficialità e l’incapacità di risollevare l’economia, messa in ginocchio da Brexit. Il partito di Winston Churchill e Margaret Thatcher esce da questa tornata elettorale con le ossa rotte: ci vorranno anni per riprendersi. Il vento di destra che soffia sul Continente s’è fermato alla Manica? Inglesi, scozzesi e gallesi sono diventati tutti di sinistra? Ovviamente no. La verità, secondo l’editorialista, è un’altra. Se chi comanda delude, viene sostituito. Se la delusione è profonda, la sostituzione è rapida e feroce. Questa capacità di rinnovamento è la forza delle democrazie. I regimi ne sono sprovvisti. I despoti inacidiscono, invecchiano, impazziscono; ma non lasciano mai il potere, se non vengono costretti. Il partito conservatore britannico, invece, se ne andrà senza far storie: Donald Trump non abita a Downing Street. Un’uscita di scena clamorosa e ingloriosa, tuttavia. Il primo ministro sconfitto, Rishi Sunak, non è il più colpevole, ma paga per tutti. Un paese frustrato gli ha presentato il conto. Come ha potuto ridursi così, la classe politica più invidiata al mondo? Una spiegazione convincente la fornisce Simon Kuper nel suo libro Chums. Scuole eccellenti come Eton e ottime università come Oxford hanno allevato, negli anni Settanta a Ottanta, una casta intellettualmente arrogante e moralmente fragile, convinta che l’intelligenza brillante - non la preparazione, non la coerenza, non la moralità - le permettesse tutto e le perdonasse qualsiasi cosa. Il capofila di questa generazione è Boris Johnson. Non assisteremo ora al ritorno dello spirito di Tony Blair. La sua Cool Britannia non esiste più; al suo posto c’è una nazione convalescente, che ha bisogno di tempo per rimettersi in forze.
Claudio Tito, la Repubblica
Nella storica vittoria dei laburisti britannici – commenta su Repubblica Claudio Tito – c’è una lezione e un piccolo spicchio di speranza. Il populismo e la destra, nelle varie forme in cui si manifesta in Europa e nel resto del mondo, si può sconfiggere. Ma serve un progetto politico. Un disegno. Gli slogan della demagogia nazionalista si possono fronteggiare solo con le idee. Perché il terreno della propaganda e dell’istinto viscerale, per la destra è sempre quello più agevole. È il suo habitat naturale. Keir Starmer riporta la sinistra al governo della Gran Bretagna dopo quattordici anni. Soprattutto dopo la Brexit. Non c’è dubbio che i conservatori abbiano lasciato un Paese più povero e meno centrale. L’addio all’Unione europea ha reso l’Isola ancora più isolata, avvolta nella nebbia di un passato potente che non è più reale. È solo nostalgia e velleità. Lo dimostrano quasi tutti i dati macroeconomici: il Regno Unito è cresciuto e sta crescendo meno dell’Ue. Ma il nucleo della vittoria del Labour è un altro: aver proposto ai sudditi un percorso riformista. Ecco, la parola riformismo stava scomparendo dal lessico della politica continentale. Emarginata in un angolo della memoria. Starmer l’ha riportata al centro del dibattito dimostrando che il fronte progressista — come ha spiegato in una recente intervista al nostro giornale — può sconfiggere il populismo solo in questo modo. Tra le sue parole d’ordine figura il “centre ground”, che non è la semplificazione centrista ma la capacità di coinvolgere nel programma riformista ampi settori della popolazione e dell’elettorato. Del resto, la ricetta radicale sottoposta al giudizio delle urne, ad esempio da Jeremy Corbyn, non ha dato risultati. Che non si possono giustificare con il momento storico differente. Non può essere un caso che a Downing street torni lui dopo Blair (a parte la parentesi di Gordon Brown).
Massimo Martinelli, Il Messaggero
La ripresa alla Camera del dibattito sull'abolizione del reato di abuso d'ufficio – osserva sul Messaggero Massimo Martinelli – riaccende i riflettori sul delicato rapporto tra il controllo delle leggi da parte del Parlamento e l'applicazione di quelle stesse leggi da parte della magistratura. Il Parlamento, nella sua autonomia, ha deciso di intervenire in maniera radicale sul reato di abuso d'ufficio – il 323 del codice penale – che molti giuristi considerano “indefinito” perché punisce il pubblico ufficiale che abusando dei suoi poteri pone in essere qualsiasi condotta non prevista da altri articoli del codice penale. Questo tratto di incertezza sui confini di legalità che il pubblico ufficiale deve rispettare, ha prodotto negli anni il fenomeno nefasto del “timore della firma”, una sorta di immobilismo amministrativo generato dalla paura di finire sotto inchiesta per una decisione che una procura può ritenere meritevole di verifica giudiziaria. Probabilmente, se il sistema processuale penale fosse calibrato in maniera diversa, il timore della firma non avrebbe ragion d'essere, perché le statistiche dicono che gran parte di quelle verifiche giudiziarie che le procure ritengono di attivare sui casi di (presunto) abuso d'ufficio, si risolvono con un nulla di fatto, il che induce a due riflessioni. La prima: per troppe volte negli ultimi anni, la macchina amministrativa dello Stato si è inceppata a causa di un processo penale che si è risolto con un nulla di fatto. La seconda riguarda l'origine di quella abnorme percentuale di esiti negativi delle indagini per abuso d'ufficio, di gran lunga superiore alla percentuale (già altissima) degli esiti negativi di tutti gli altri procedimenti penali. A questo tipo di fenomeno si era cercato di porre rimedio in passato responsabilizzando i capi delle procure. Ma tale soluzione, avverte Martinelli, rischia di essere ora vanificata da una recente circolare preparata dalla componente togata del Csm, volta a rendere più orizzontale la gestione degli uffici della procura.
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