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L'Occidente nemico di se stesso

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 17/11/2023

L'Occidente nemico di se stesso L'Occidente nemico di se stesso Angelo Panebianco, Corriere della Sera
Angelo Panebianco si occupa dei rapporti tra Usa e Cina dopo l’incontro di San Francisco fra Joe Biden e Xi Jinping, che ha sancito (forse) una tregua tra le due potenze rivali. Tra le quali, sottolinea Panebianco, esiste un’asimmetria. Gli Stati Uniti sono una democrazia e i suoi processi decisionali sono abbastanza trasparenti: il governo risponde agli elettori. La Cina è invece un regime dispotico e la sua politica è decisa segretamente da Xi Jinping e dal suo gruppo di collaboratori. Per dire che, ad esempio, nessuno sa se e quando la Cina deciderà che sia venuto il momento di prendersi Taiwan. Si sprecano i confronti con la Guerra fredda. Ma sono sbagliati. Sia perché, a differenza della vecchia Unione Sovietica, la Cina è parte integrante del sistema economico internazionale. Sia perché non c’è niente di simile oggi ai rigidi blocchi (cementati dall’ideologia) dell’epoca del bipolarismo Usa/Urss. La rigidità del sistema internazionale di allora permise alle superpotenze (ma dopo avere superato momenti di tensione acuta, da Berlino alla crisi missilistica di Cuba) di stabilire delle regole di convivenza. Oggi i rapporti internazionali sono assai più fluidi, le alleanze meno solide di un tempo, ed è quindi difficile, se non impossibile, che le due massime potenze possano stipulare (e rispettare) un patto di convivenza nel lungo periodo. Sulla carta dunque il mondo occidentale ha ancora molte risorse da mettere in campo per contrastare le spinte a modificare a suo sfavore lo status quo internazionale. Ma solo sulla carta. Perché tale mondo è oggi fragile (su questa evidente fragilità puntano le potenze autoritarie). La società occidentale è alle prese con l’odio per se stessa, il rifiuto di ciò che più la caratterizza, ossia la democrazia liberale, che sono cresciuti al suo interno. C’è il serio rischio di una vittoria di Donald Trump nelle prossime elezioni presidenziali americane. Se Trump vincesse l’impatto sul mondo occidentale nel suo insieme sarebbe devastante. C’è l’antisemitismo dilagante senza più freni e inibizioni. Ci sono, in tutto l’Occidente, prestigiose università, nelle quali si formano le classi dirigenti, in cui minoranze vocianti si sono votate alla causa anti- occidentale. Ci sono significative correnti di opinione filo-putiniane. Si pensi a come cambierebbero gli equilibri europei in caso di una forte affermazione elettorale di Alternative für Deutschland, l’estrema destra tedesca. O alla forza dell’estrema destra e dell’estrema sinistra in Francia. La Nato, l’Unione europea, le gambe su cui la società occidentale si sostiene, potrebbero risultare, prima o poi, seriamente indebolite.
 
Marta Dassù, la Repubblica
Su Repubblica anche Marta Dassù si occupa del vertice fra Joe Biden e Xi Jinping a San Francisco. Vertice, osserva, che non evoca la nascita di un G-2, un direttorio bipolare sulla testa dell’Europa o della Russia, gli alleati delle due parti. Ma dimostra che i principali rivali del mondo di oggi cercano di contenere i rischi e di gestire la loro competizione. Anche durante la prima guerra fredda, del resto, Stati Uniti ed Unione Sovietica trattavano accordi sul controllo degli armamenti. In questa seconda sfida globale, le due grandi potenze dell’Atlantico e del Pacifico sono alla ricerca di regole del gioco che permettano di tenere sotto controllo i rischi relativi a Taiwan e di moderare i costi della vera guerra fredda in atto, quella per il predominio tecnologico. Pesano le difficoltà interne di entrambi. Joe Biden, in un anno elettorale, ha indici di gradimento così bassi da ricordare Jimmy Carter, presidente per un solo mandato. L’economia degli States non va affatto male; ma i sondaggi indicano che la maggioranza degli americani pensa di stare molto peggio di quattro anni fa. Non certo una buona premessa per vincere la sfida elettorale, per un Presidente con il peso negativo del fattore età. E non è chiaro se e quanto aiuterà il dialogo con la Cina, vista come potenziale minaccia (di sicurezza, economica) da gran parte dell’opinione pubblica americana. Xi Jinping, teorico del “grande Rinascimento del popolo cinese”, si trova invece alle prese con il primo vero stop della crescita economica da quattro decenni a questa parte. Se Deng Xiaoping aveva innescato, proprio con il suo viaggio negli Stati Uniti del 1979, una fase di straordinaria ascesa economica della Cina, Xi Jinping rischia di passare alla storia come il protagonista della fine del miracolo cinese. Non a caso, ha chiesto ai principali imprenditori americani di continuare a investire nel suo Paese, dopo avere parlato per anni dell’ineluttabile declino degli Stati Uniti. Il nazionalismo di Xi è una rischiosa compensazione delle difficoltà economiche interne. Con le loro conseguenze politiche. La legittimità al potere della dinastia comunista si fonda sul noto scambio: libertà economica ma senza libertà politica. Con una crescita in rallentamento, lo scambio funzionerà sempre meno. La Cina è insomma più debole di quanto in genere si pensi, ha più bisogno dell’America che non viceversa.
 
Federico Geremicca, La Stampa
Sulla Federico Geremicca spiega perché Elly Schlein sbaglia a non andare ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, a cui è stata invitata da Giorgia Meloni. La politica e il confronto si fanno in Parlamento, ha risposto la segretaria del Pd declinando l’invito. Vero. Meglio: parzialmente vero. Si fa politica anche nei talk show, sui social. In dibattiti, convegni e perfino – pensa te – nelle feste di partito: a meno di non voler retrocedere quelle dell’Unità a sagre di paese. La motivazione, dunque, non convince granché. Inoltre, la scelta della segretaria Pd rischia di risultare più dannosa – considerata l’aria che tira e le polemiche che potrebbe sollevare – del sì ad un confronto probabilmente vantaggioso: avrebbe infatti compiuto un atto di cortesia politica, coraggiosamente giocando fuori casa: avrebbe riproposto le proprie convinzioni e, per quello, sarebbe stata probabilmente fischiata. Circostanze – tutte – che inducono ad empatia. Assai più che un brusco “con te nemmeno ci parlo”. Fore, dunque, un’occasione mancata. Certo, dietro la scelta di Elly Schlein s’intravede ancora l’ombra di quella presunzione e di quella arroganza che tanto hanno allontanato la sinistra dal suo popolo: un innato senso di superiorità (irrobustito dagli anni e anni passati al governo con questo o con quello) del quale il dibattito pubblico fare tranquillamente a meno. Colpisce il fatto, però, che la sinistra di cui si parla non è mai stata la sinistra di Elly Schlein (che ha preso dopo anni la tessera del Pd solo per poter partecipare alle primarie). Secondo Geremicca, Schlein potrebbe aver rifiutato l’invito dicendo che il confronto si fa in Parlamento, perché sarebbe questo il terreno sul quale intende dare battaglia da qui ai prossimi mesi: e il terreno è appunto la difesa delle prerogative del Parlamento. C’entra la riforma costituzionale, e anche il numero record di decreti, la blindatura parlamentare della legge di bilancio e l’idea che perfino per la trovata “migranti in Albania” non serva alcun dibattito alla Camera o al Senato.
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