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Chiarirsi le idee a sinistra
La sinistra che urla non vince
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Redazione InPiù 26/09/2023

Sul Corriere della Sera Angelo Panebianco sottolinea come tra destra e sinistra, in Italia, via sia una evidente asimmetria. La destra, quando è all’opposizione, urla e strepita contro il governo qualunque cosa esso faccia (pur con la rilevantissima eccezione, all’epoca del governo Draghi, della posizione di Fratelli d’Italia sull’Ucraina). È solo quando si trova a governare che deve fare i conti con la complessità dei problemi. Ma può urlare e strepitare impunemente perché gode nel Paese di un consenso superiore a quello della sinistra. Le urla e gli strepiti (ciò che, tecnicamente, Giovanni Sartori definiva «opposizione irresponsabile») non le impediscono di vincere le elezioni. Per la sinistra è diverso. La sinistra, all’opposizione, fa ciò che faceva la destra nella stessa situazione. Solo che le sue urla e i suoi strepiti non le fanno guadagnare un voto. Non viene a nessuno il sospetto, da quelle parti, che l’opposizione irresponsabile, se può servire alla destra quando è all’opposizione, non serva invece alla sinistra? Mi correggo: serve per coltivare l’orticello, tenersi stretti gli elettori (pochi) che già si hanno ma al prezzo di restare in minoranza. Non serve per fare una proposta di governo che permetta di guadagnare molti nuovi elettori. Né ha senso consolarsi dicendo che, se si guardano i numeri, se si tiene conto anche delle astensioni, la destra non dispone del consenso della maggioranza degli elettori. Non significa nulla. Vince (ottiene la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari) chi cattura il voto della minoranza elettorale più forte. La minoranza elettorale che vota a destra è oggi di gran lunga più forte della minoranza elettorale che vota a sinistra. Certamente, la questione identitaria (come ha osservato Sergio Fabbrini, sul Sole 24 ore) riguarda anche la destra di governo. E la porta a commettere errori e pasticci. Però la destra comunque governa. È la sinistra che, coltivando solo l’identità, corre il rischio maggiore: ritrovarsi in mano, alla fine, un pugno di mosche.
Claudio Tito, la Repubblica
Secondo Claudio Tito, Giorgia Meloni appare ormai prigioniera di se stessa. Ingabbiata – commenta l’editorialista di Repubblica – in un’immagine che si è autonomamente assegnata. Non riesce ad uscire dal cliché della donna di destra che alza la voce per risolvere i problemi e per dimostrare di essere forte. E di guidare una “nazione” altrettanto forte. Ma quando quell’immagine si misura con i fatti e con la realtà, va immediatamente in frantumi. Mostra tutti i segni e i cocci della sua debolezza. È uno specchio introflesso, capace solo di riflettere le esigenze domestiche e che esplode in mille pezzi quando subisce la spinta ad una naturale ed europea estroflessione. La lettera inviata al cancelliere tedesco Scholz sta provocando proprio questi effetti. I contenuti e soprattutto il tono espongono il Paese ad una fragilità inusitata. Nel merito, infatti, la presidente del consiglio non tiene conto di alcuni aspetti che sono fondamentali e che in diplomazia marcano la differenza tra la sconfitta e la vittoria. Il provvedimento di cui si lamenta è stato approvato dalle autorità tedesche nel 2022. Il finanziamento destinato alle Ong che operano nell’attività di assistenza dei migranti rientra nel bilancio federale varato oltre nove mesi fa. Non è insomma una novità. Non è certo la prima volta che Berlino prevede quel tipo di misura e comunque è stato autorizzato quando il governo Meloni era almeno agli albori. Le parole scritte nero su bianco dalla premier, invece, non solo fanno emergere una conoscenza approssimativa delle scelte compiute da un Paese non solo leader in Europa ma storicamente alleato dell’Italia, ma fanno sospettare che il Cancelliere socialdemocratico Scholz abbia voluto deliberatamente mettere in difficoltà un esecutivo di destra. Inoltre, il linguaggio e la gradazione che viene utilizzata in quel testo è assolutamente controproducente. Ricorrere a una lettera di questo tipo con la Germania significa aprire un altro conflitto dentro l’Unione europea.
Angelo De Mattia, Il Messaggero
La revisione sostanziale delle norme riguardanti la tassa sui cosiddetti “extra profitti” delle banche, annunciata dal Governo, è positiva – commenta sul Messaggero Angelo De Mattia – e si colloca nella giusta direzione del corretto rapporto tra i poteri pubblici e queste ultime. Tutto sommato, si potrebbe dire “ex malo bonum”: partendo da un testo che aveva suscitato critiche e divisioni si è avuta la capacità di formulare una proposta nel complesso aggregante che, innanzitutto, con il riferimento al tetto dell’imposta dello 0,26 per cento all’attivo medio ponderato per il rischio dovrebbe di fatto fugare il pericolo di una nuova tassa concernente il rendimento dei titoli pubblici che sono privi di rischio. E ciò proprio in una fase in cui si ha estremo bisogno di una agevole raccolta di risparmio da parte del Tesoro. In questo caso, i giuristi direbbero che si è agito “de damno vitando”, per prevenire un grave danno, considerate anche le immediate reazioni negative a livello internazionale nei confronti dell’originaria stesura delle norme in questione. Ma non meno rilevante è l’opzione che si introduce - in alternativa alla sottoposizione a tassazione - della destinazione di un importo pari a due volte e mezza il valore dell’imposta a una specifica riserva per l’irrobustimento in tal modo del patrimonio degli istituti. Potranno prevedersi ulteriori specifiche destinazioni? È da verificare. Si crea un nuovo modello “tassa o rafforza il patrimonio” con la possibilità in quest’ultimo caso di accrescere l’erogazione dei prestiti? Non è detto, ma la soluzione trovata è anche un bilanciamento per non smentire la via della tassazione prima imboccata, da un lato, e, dall’altro, per tener conto delle osservazioni della Bce e dell’Abi, con quest’ultima che si è espressa solo in sede parlamentare. Resta il principio con le connesse apprezzabili finalità sociali che ha animato, all’origine, l’intervento normativo, ma lo si riconsidera sotto i diversi profili anche costituzionali e di fatto si esclude che sul gettito di una tassa della specie, che deve essere “una tantum”, si possa confidare per misure stabili di finanza pubblica.
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