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Redazione InPiù 23/09/2023

I rapporti italo-tedeschi in questa fase non sono ottimali. Riforma del Patto di stabilità e crescita, mancata ratifica del Mes da parte dell’Italia, migranti, aiuti di Stato sono tutti temi sui quali Roma e Berlino hanno posizioni contrastanti. Come vede la situazione? «Con il presidente Mattarella siamo d’accordo sul fatto che nei nostri due Paesi il significato dei rapporti italo-tedeschi venga regolarmente sottovalutato. Non sono solo rapporti di lunga data, ma anche reciproche influenze che si dipanano nei secoli. Penso all’architettura italiana e a come abbia influenzato i maestri costruttori tedeschi del Rinascimento e del Barocco, o all’influenza della gastronomia italiana su quella tedesca, ai tanti lavoratori-ospiti che negli Anni Sessanta sono venuti da noi, ai milioni di tedeschi che ogni anno visitano l’Italia dall’Alto Adige alla Sicilia. I nostri Paesi sono così intrecciati dalla cultura, dalle persone e da oltre 400 gemellaggi tra città, che noi dobbiamo far tesoro di questa vicinanza. Penso che questa amicizia cresciuta nei secoli debba reggere anche nei momenti di polemiche o contrasti che non si riescono a risolvere nell’attualità». La guerra in Ucraina pone l’Europa di fronte a una grande sfida. Finora la Ue, Germania in testa, ha assicurato a Kiev il suo pieno appoggio militare, politico, economico. Ma è chiaro che senza gli Stati Uniti la resistenza dell’Ucraina non sarebbe stata così efficace. L’Europa rimane militarmente e geopoliticamente debole. Di recente l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer ha scritto che il rafforzamento della capacità di deterrenza dell’Europa, cioè la spesa militare, deve avere priorità assoluta e venire prima del risanamento dei bilanci pubblici nazionali. Cosa ne pensa? «In realtà non avrebbe dovuto essere la guerra in Ucraina a farci imparare la lezione, avremmo potuto saperlo da tempo che noi europei dobbiamo prendere in mano i nostri interessi di sicurezza. Ho buona memoria e ricordo quanto fu difficile in Germana e in Europa. Io fui tra i ministri che nel 2014 in Galles sottoscrissero l’obiettivo del 2% del Pil per le spese militari e non venni lodato per questo. Il rafforzamento della difesa europea era necessario anche a prescindere dalla guerra in Ucraina. Possiamo prevedere che gli Usa non si ritireranno dall’Europa, ma i loro interessi strategici cambiano alla luce della geopolitica e del crescente ruolo dei Paesi dell’Asia orientale. Lo spazio transatlantico non sarà privo di importanza, ma quello indopacifico sarà per loro più importante, chiunque sia il prossimo presidente. Dal febbraio 2022 è anche chiaro a tutti in Europa che dobbiamo rafforzare le nostre difese a protezione di libertà e democrazia. In Germania c’è stato un cambio di paradigma, che il cancelliere ha definito “svolta epocale”. Ciò significa non solo sostegno politico, finanziario e militare all’Ucraina, ma anche la scelta di aumentare professionalizzazione e armamenti delle nostre forze. Questa è la strada, sostenuta da una grande maggioranza della popolazione». La posizione di Kiev è: non possiamo trattare con Putin e il suo regime. Come vede le chance per una soluzione negoziale della guerra? «Ovunque in Europa si tengono conferenze e viene posta la domanda sulla fine della guerra. Partiamo dal presupposto che il più forte desiderio di pace è proprio quello degli ucraini, che tanto dolore e morte hanno sofferto nell’ultimo anno e mezzo. L’Ucraina lotta per la sua sovranità, indipendenza e democrazia, contro un nemico soverchiante. La Russia potrebbe finire questa guerra domani. La differenza è che, se Mosca ritira le truppe, la guerra finisce. Se lo fa Kiev, finisce l’Ucraina. Certo, non dobbiamo perdere la prospettiva della pace. Ma qual è il momento del negoziato, può essere deciso solo in Ucraina. E alla luce delle attività militari di entrambe le parti, non ci siamo ancora». In Europa i partiti di estrema destra sono dappertutto in crescita. L’Afd in Germania desta maggiori preoccupazioni che altrove, sia a causa delle sue parole d’ordine eversive, sia in ragione della storia tedesca. Si ha l’impressione che la svolta a destra venga accettata soprattutto nelle regioni della ex Ddr. Come spiega il fenomeno? «Il populismo è una sfida per tutte le democrazie liberali, che vengono contestate dall’interno da posizioni estremiste e nazionalpopuliste. Forse in Germania abbiamo pensato per troppo tempo di essere in qualche modo immuni da sviluppi come quelli osservati in America. Ho sempre messo in guardia da questa presunzione europea. I segnali erano visibili anche in Germania, per esempio nei toni più aspri del confronto politico in un Paese nel quale la democrazia è sempre stata caratterizzata da governi di coalizione e dalla disponibilità dei partiti a collaborare. Questa inconciliabilità è nuova in Germania. Una volta che arriva, è difficile eliminarla. Naturalmente c’è un aspetto particolare tedesco, accanto a questo fenomeno globale. Ci sono vecchie aree industriali, minerarie e siderurgiche, dove a causa delle cesure e cambiamenti dello sviluppo economico si sono persi posti di lavoro, creando insicurezza diffusa per il futuro. Ci sono ricche regioni del Sud-Est dove invece si temono i nuovi sviluppi tecnologici. E poi nei Länder dell’Est la riunificazione ha avuto effetti diversi. Ci sono nuovi poli di sviluppo in Turingia e Sassonia, ma anche aree dalle quali molti giovani sono emigrati. In più è emersa la percezione che negli Anni Novanta non si sono presi in sufficiente considerazione gli interessi e l’esperienza dell’Est. È un dibattito difficile che dobbiamo fare. Io incontro regolarmente persone in un format che mi porta per tre giorni in una città piccola o media, dove si discute, si chiarisce, si polemizza. Sono i momenti nei quali si può aprire questo complesso senso di insoddisfazione e lavorarci, poiché molte persone hanno bisogno di chiarezza e riorientamento».
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