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Scelta dei ministri e nomine: la fedeltà non serve al Paese
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Redazione InPiù 21/09/2023

Sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia ricorda a Giorgia Meloni che nella scelta dei ministri e nelle nomine il criterio della fedeltà non serve al Paese. E per dimostrare ciò rievoca due precedenti storici: il governo costituito da Mussolini all’indomani della marcia su Roma e quello formato da De Gasperi dopo la vittoria del 18 aprile. Nel novembre del 1922 il duce si guardò bene dall’assegnare il ministero della Guerra ad Amerigo Dumini o a qualche altro scherano dello squadrismo: lo diede invece al maresciallo Diaz; tanto meno si rivolse a Roberto Farinacci per il ministero dell’Istruzione: chiamò Giovanni Gentile. Ancor più e meglio De Gasperi, il quale, pur disponendo nel ’48 di una maggioranza assoluta in Parlamento non chiese a don Sturzo di fare il presidente della Repubblica. Lo chiese al liberale Luigi Einaudi, e allo stesso modo non diede lo strategico ministero degli Esteri a Dossetti o a un suo fedelissimo, lo diede al repubblicano Sforza. I governi Mussolini e De Gasperi rappresentavano due fratture di portata drammatica rispetto al corso precedente della storia del Paese. Ed entrambi capirono che era un loro interesse mostrarsi, come si dice, inclusivi, scegliendo di essere affiancati da persone non appartenenti alla propria parte anche se naturalmente non ostili. E sicuramente lo fecero perché non solo si sentivano sicuri del fatto loro ma perché ognuno di essi intendeva che il proprio governo rappresentasse una vera rottura e l’apertura di una fase politica davvero nuova e destinata a durare, come in effetti fu. Anche a Giorgia Meloni doveva essere evidente che il suo interesse, una volta divenuta presidente del Consiglio, era quello di aprire al centro, come si dice. Che solo da lì poteva venirle la forza per consolidare la sua leadership realizzando il disegno di dar vita a una grande forza liberal-conservatrice, così da rimodellare il sistema politico italiano dando inizio a una fase davvero nuova della sua storia. Viceversa la presidente del Consiglio, lungi dal battere questa strada ha preso quella opposta: si è rinchiusa in una sorta di «ridotto della Valtellina» identitario, ma non è così che si costruisce una leadership autorevole.
Michele Ainis, la Repubblica
Le banche italiane stanno dando i numeri, scrive Michele Ainis su Repubblica: 3, 41, 42, 53. Ossia gli articoli della Costituzione che sarebbero violati dalla tassa sugli extraprofitti, introdotta dal governo senza nemmeno consultarle, altro peccato mortale. Partiamo dai numeri, dunque. «Regnano sull’universo», diceva Pitagora. Ma nell’universo delle banche regnano gli utili, i quattrini. Aumentati del 55 per cento (25 miliardi) nel 2022, rispetto all’anno precedente; e del 62 per cento nel primo semestre del 2023. Per effetto di saggi investimenti, di virtuose attività d’impresa? Forse. Però soprattutto per merito della Banca centrale europea, che ha innalzato progressivamente i tassi d’interesse, per contrastare l’inflazione. Di conseguenza le banche italiane incassano un rendimento del 3,75 per cento sui loro depositi a vista dalla Bce; ma remunerano i risparmi dei propri correntisti con un misero 0,32 per cento. Se restituissero il 40 per cento del tasso europeo – ha osservato Roberto Rustichelli, presidente dell’Autorità Antitrust (Sole 24 Ore, 8 settembre) – metterebbero in circolo 15 miliardi; e lo Stato ne intascherebbe 4, con la tassazione già esistente. Ma non lo fanno, e s’appellano invece alla Costituzione. Chiamando in causa il diritto di proprietà, che tuttavia non è più «inviolabile», come nello Statuto albertino del 1848; bensì soggetto a limiti, per assicurarne la «funzione sociale». Invocando la libertà d’impresa, che però a sua volta non può svolgersi in contrasto con l’«utilità sociale». Lamentando gli effetti retroattivi della nuova tassa, senza ricordare che il divieto di retroattività non è affatto un principio costituzionale, se non in materia penale. O infine denunciando la lesione del principio d’eguaglianza: perché alle banche sì e alle assicurazioni no? Ma quel principio – notava già Aristotele – s’applica agli eguali, non ai diseguali. Se la tassa sugli extraprofitti colpisse Unicredit lasciando indenne Banca Intesa, allora sì, sarebbe irragionevole.
Mario Deaglio, La Stampa
In un contesto in cui nessun Paese membro dell’Unione può dirsi che stia bene dal punto di vista economico e neppure da quello delle tensioni sociali, l’appello del presidente della Repubblica Mattarella perché le regole europee dei bilanci pubblici degli Stati membri “non siano ottuse” è certamente pacato ma altrettanto certamente molto duro. Il rigore – commenta Mario Deaglio sulla Stampa – non può essere fine a se stesso, le medicine vanno graduate in base alle indicazioni dei medici, con l’impegno dei malati di seguire davvero le cure indicate. E tutti i paesi membri, quale più e quale meno, sono malati: l’ideale di una finanza pubblica cristallina, sognata da una generazione di politici europei si è appannata dappertutto. Si era espressa con l’introduzione del Patto di Stabilità, messo a punto nel 1997 che ha dovuto essere sospeso nel 2020. In teoria, nel 2024 dovrebbe tornare in vigore così com’era, ma tutti sanno che ciò è del tutto irrealistico. Le regole dei bilanci degli Stati membri sono tutte da reinventare prima della fine dell’anno: non è un caso che l’euro abbia perso circa il 5 per cento del suo valore rispetto al dollaro dalla metà di luglio a oggi. Non si tratta, certo di un crollo ma di un serio segnale di avvertimento della comunità finanziaria internazionale che così non si può andare avanti. Il che vuol dire che il nuovo Patto di Stabilità – radicalmente rivisto, più flessibile, con obiettivi non solo contabili o monetari – deve poter entrare in vi- gore entro la fine dell’anno. Si tratta, in un certo senso, del nucleo centrale di una nuova costituzione europea, dopo quella – perfezionata nei decenni – basata sulla libertà degli scambi e sulla creazione di un unico grande mercato. A questo progetto essenziale stanno lavorando in silenzio squadre di esperti dei vari paesi. Alla fine dell’anno mancano all’incirca cento giorni e forse non è retorico affermare che in questi cento giorni si gioca buona parte del destino dell’Europa.
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