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Ecco come si arriva al fondo del barile
Redazione InPiù 24/05/2023

Per far fronte all’alluvione in Romagna e Marche il governo deve «raschiare il fondo del barile». È questa, sottolinea sul Giornale Marcello Zacché, l’espressione che ha usato la premier Giorgia Meloni al ritorno dal viaggio nelle zone devastate e prima di varare il decreto che ha stanziato due miliardi per aiuti e ricostruzione. Una cifra che è meno della metà dei danni reali, stimati in almeno cinque miliardi. Ma ieri qualcosa stonava, e una domanda risuonava: perché per aiutare questi nostri concittadini, italiani ed europei, il governo è costretto a «raschiare il fondo del barile»? La risposta, tecnica, è legata al debito: nella classifica del peggior debito pubblico dei Paesi industrializzati l’Italia è seconda solo al Giappone. Ma è ancora meno libera perché, avendo una moneta in comune con altri 19 Paesi europei deve sottostare a regole finanziarie che non le permettono autonomia monetaria. Se piove, lo Stato non può emettere titoli o banconote: è costretto a fare una tombola. Ma adesso le immagini della Romagna ci dicono che in questo sistema c’è qualcosa che non va. Non è possibile che uno Stato liberal democratico contemporaneo, per quanto indebitato, non sia in grado di aiutare i propri cittadini in difficoltà. È vero: la pandemia del 2019 ha dimostrato che l’Europa ha trovato le risorse politiche per intervenire in aiuto dei più fragili ed è nato il Next Generation Eu, da cui per l’Italia sono stati stanziati i 190 miliardi del Pnrr. Ed è anche vero che gli italiani fanno fatica a usarli. Ma sarebbe sbagliato partire di qui per sostenere che Bruxelles ha già dato. Primo perché anche se i fondi del Pnrr non c’entrano con le emergenze e semmai servono a evitarle in futuro, in casi estremi come questi basterebbe poco per farli rendere al meglio, per di più a parità di debito futuro. Secondo perché nessun cittadino europeo colpito da una catastrofe come questa deve pagare per gli errori o le cattive abitudini di altri.
Paolo Balduzzi, Il Mattino
Sul Mattino Paolo Balduzzi si occupa del rapporto tra Stato e regioni, trattando il tema del federalismo fiscale. Da un lato, osserva, non si può accusare il federalismo, in sé, di portare a una sicura rovina del Paese: altrimenti non potremmo citare casi come gli Stati uniti, il Canada o la Svizzera come esempi di paesi avanzati economicamente e politicamente. Tuttavia, nemmeno il federalismo – per restare nel quadro istituzionale italiano, il regionalismo – può essere presentato e dipinto come la panacea di ogni male. Non saranno certo oltre trent’anni di retorica leghista a cambiare le cose; tanto più che le evidenze accumulate in questo periodo, in particolare dal 2001 in poi, anno della (ardita) riscrittura del Titolo V della seconda parte della Costituzione, sono più contrarie alla causa del regionalismo che a favore. Ha quindi davvero poco senso assumere posizioni per partito preso: tanto per quanto riguarda il dibattito sul federalismo fiscale quanto per quello sulla più attuale autonomia differenziata. E quanto, ancora, in quello sulla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, vale a dire i trattamenti minimi per i servizi fondamentali che devono essere soddisfatti su tutto il territorio nazionale (per esempio sanità, istruzione, assistenza, etc.). La Costituzione italiana, per quanto pregevole sotto alcuni aspetti, è anche criticabile sotto altri. Uno di questi è certamente la confusione che i nuovi articoli 116 e 117 hanno portato nel dibattito sul rapporto tra Stato centrale e regioni. Il principio, sia chiaro, è anche corretto: vale a dire, riconoscere che alcune materie sono svolte meglio dallo Stato centrale e altre meglio dalle regioni. Tuttavia, l’eccessiva numerosità delle materie di competenza concorrente (art. 117 comma 3), la possibilità di autonomia differenziata anche su materie di esclusiva competenza statale (art. 116 comma 3), e la discutibilità di materie lasciate in maniera residuale alla competenza regionale (art. 117 comma 4), hanno portato forse più confusione che chiarezza ai rapporti tra Stato centrale e governi regionali e quindi all’efficacia delle politiche pubbliche. Ma il ruolo dello Stato centrale, e in fin dei conti la sua supremazia in alcuni ambiti, non può essere semplicemente ignorato o cancellato da nessuna riforma. Soprattutto quando manca il consenso della maggior parte dell’elettorato.
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