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I nostri errori negli anni
Se le banche centrali non fermano l'inflazione
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 21/03/2023

Le banche centrali sono ancora capaci di controllare l’inflazione? E’ l'interrogativo che si pone Francesco Grillo sulle pagine del Messaggero. “I dubbi sull’efficacia degli strumenti che le banche centrali hanno a disposizione sono cominciati quando esse furono chiamate a andare oltre il proprio mandato prioritario per salvare un sistema finanziario colpito dalla crisi finanziaria del 2008 e da quella dei debiti sovrani nel 2011. Dal 2009 fino al 2015 - ricorda Grillo -, Fed e Bce iniettarono nel sistema 5mila miliardi. E tuttavia se prima di questa colossale operazione l’inflazione era attorno al 4%, essa era scesa sotto lo 0% quando l’iniezione si concluse nel 2015. Contraddicendo ciò che studiamo nei volumi del primo anno della laurea di economia. Oggi la situazione è opposta ma il paradosso si ripete. L’inflazione è diventata improvvisamente troppo elevata e le banche centrali sembrano ugualmente impotenti: il tasso d’interesse della Bce è aumentato sei volte dal luglio scorso; l’inflazione è continuata però a crescere fino a novembre, per poi attestarsi a febbraio su un livello quattro volte superiore a quello sotto il quale la Bce deve tenerci per statuto. Insomma, oggi come dieci anni fa sembra che l’inflazione sia diventata indifferente alle decisioni delle istituzioni che hanno come obiettivo quello di controllarne il livello”. Secondo Grillo “è l’integrazione progressiva dei mercati dei beni e dei capitali, nonché la tecnologia ad aver (quasi) ucciso le politiche monetarie. I prezzi scendono perché i computer stanno consentendo di aumentare la produttività; e salgono se il mondo fa retromarcia e spezza quelle catene attraverso le quali si trasferiscono più elevati livelli di efficienza. E sempre meno per le decisioni dei banchieri centrali. Le conseguenze di tale novità sono molto importanti. Potremmo infatti ritrovarci a scoprire che stiamo prendendo medicine scadute rispetto ad un virus che ha subito una mutazione che non abbiamo ancora avuto il tempo di studiare”.
Nathalie Tocci, La Stampa
Sulla Stampa Nathalie Tocci commenta la visita a Mosca del presidente cinese Xi Jinping. “Teoricamente la Cina potrebbe mediare un accordo di pace tra Russia e Ucraina - scrive Tocci -. Con la cesura dei rapporti economico-energetici tra Russia ed Europa, Mosca si è consegnata chiavi in mano a Pechino. Se Xi volesse, avrebbe dunque leve importanti per indurre la Russia a ritirarsi entro i propri confini. Ma non esistono segnali in questa direzione. Al netto dei fotomontaggi, la visita di Putin a Mariupol indica plasticamente la totale indisponibilità del Cremlino a fare un passo indietro. Non esiste una possibile facilitazione cinese (o di qualunque altro Paese) tra Russia e Ucraina, ma solo, eventualmente, una mediazione coercitiva nei confronti della Russia, che la Cina non è disposta a svolgere. La ratio politico-diplomatica della visita di Xi in Russia non è di mediare un accordo impossibile tra Mosca e Kiev, ma di mostrare al cosiddetto Sud globale che la Cina, a differenza del belligerante Occidente, è una potenza «di pace». Ma allora l’incontro tra Xi e Putin va nella direzione opposta? Dovremmo forse temere la realizzazione di quell’«amicizia senza limiti» che Putin e Xi si promisero? La risposta, anche qui, è no. Ci saranno nuovi accordi economici, energetici e tecnologici; alcuni di questi saranno sbandierati, altri celati. Ma la Cina non ha certo interesse nel mettere a repentaglio i rapporti commerciali con l’Europa. Le eventuali prove di sostegno tecnologico e militare cinese alla Russia continueranno a essere marginali e ben nascoste. Pechino non vuole certo che il suo alleato russo diventi una zavorra, ma ciò non significa che la Cina sia disposta a sostenere la Russia accelerando il disaccoppiamento dagli Stati Uniti e dall’Europa. Xi continuerà a sostenere l’amico Putin a parole e, marginalmente, nei fatti; il collante tra i due rimarrà l’opposizione agli Usa”.
Walter Galbiati, Repubblica
Su Repubblica Walter Galbiati commenta gli “allarmi” sui ritardi del Pnrr lanciati ieri dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e dal commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni. “Lo hanno detto senza troppi giri di parole: non possiamo permetterci il lusso di perdere gli investimenti del Pnrr. Già a fine anno – spiega Galbiati - il governo aveva dovuto correre per centrare gli obiettivi 2022 coi quali sarebbero dovuti arrivare a febbraio 19 miliardi di euro. Il ‘sarebbero’ è d’obbligo perché la Commissione Ue ha per il momento congelato i pagamenti perché il decreto del 14 febbraio scorso di attuazione del Pnrr non è stato convertito e la nuova Unità di missione che avrebbe dovuto governare il piano non è ancora stata costituita, si dice per lotte di potere all’interno del governo. Devono essere assunte 60 persone, ma non è stata nemmeno avviata la selezione. Di fatto quei miliardi che dovevano arrivare entro fine febbraio sono ancora sospesi e un eventuale ritardo rischia di compromettere i prossimi obiettivi del Pnrr previsti per giugno e, a cascata, come un treno che accumula ritardi di stazione in stazione, anche quelli di fine anno, che complessivamente valgono 34 miliardi. Il campanello di allarme di Visco e Gentiloni suona forte e non suona a caso. «Le riforme» contenute nel Pnrr «sono essenziali e vanno attuate. Sono complementari agli investimenti privati» perché l’Italia «ha bisogno di investimenti delle imprese italiane e dall’estero», ha sollecitato Visco, a cui ha fatto eco Gentiloni: «In Italia si presta attenzione al Ponte sullo Stretto e alla flat tax ma c’è un problema di estrema attualità che è il Pnrr». Col Pnrr l’Italia si gioca la crescita del 2023 le cui previsioni oscillano tra lo 0,6 e lo 0,8%, nelle migliori delle ipotesi. Si stima che l’impatto del Piano possa essere intorno allo 0,5%, il che significa che attuarlo o meno è il discrimine che separa crescita e recessione. E al momento si ha il sentore che qualcosa stia andando storto”.
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